1 – DI TASSA IN TASSA: “La tassa sul macinato in Lessinia”
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DI TASSA IN TASSA: “La tassa sul macinato in Lessinia”
Prima puntata: «Io, Cristiano Gugole, lascio in eredità a mia nuora… »
Proviamo a prendere le cose un po’ da distante, a fare un giro largo, un respiro profondo; proviamo ad agire come se non si fosse incalzati da non si sa bene chi, a seguire le dolci ondulazioni del pensiero, i suoi capricci, i suoi nascondimenti e i suoi svelamenti.
E curiosare negli archivi, quelli grandi e importanti, ma anche quelli che lo sono meno, che a volte sono solo famigliari. E allora imbattersi in un testamento, in un inventario di beni, in un lascito può diventare interessante, può svelare delle cose, può, con la forza che la legge e la tradizione attribuiscono a questi gesti e a queste carte, illuminarci sulla vita materiale di chi è vissuto diciamo cento o duecento anni fa.
Anche Cristiano Gugole, di Campofontana, nella prima metà del secolo XIX (le carte non ufficiali talvolta ignorano la mania perfezionistica e mancano di qualcosa, in questo caso della data esatta), affida ad una scrittura l’«Inventario deli effetti mobili, vestiti ed immobili» lasciati alla nuora.
Dal tenore del lascito all’immaginare il tenore di vita il passo, seppur non automatico, è comunque breve.
L’inventario così recita:
Cristiano Gugole lascia a sua nuora «una mojeta di ferro da fuoco, due cuchiaj e due forchette, una botte vecchia inservibile con tre cercoli di ferro…»
Certo, la nuora di Cristiano avrà posseduto altre suppellettili, che altrimenti più bestia sarebbe stata che cristiana, ma quella mojeta, quelle forchette e quella botte inservibile dicono parecchio sul suo tenore di vita, anche senza aggiungere retorica alla scarna elencazione dei fatti. La scala di valore degli oggetti era quella lì, finalizzata alla sopravvivenza, alla soluzione delle necessità concrete, allo svolgimento delle elementari operazioni della vita. Altro spazio non vi era, neanche l’immaginazione andava oltre a quell’orizzonte fatto di una mojeta e di un vedoto inservibile. Ed è significativo quell’«inservibile». Lo è perché, nel ragionare comune, entro quell’orizzonte in cui si mangiava poco e male, si pativa il freddo, non ci si curava che con poche erbe, l’anno prossimo poteva anche essere peggiore di questo, le cose avrebbero potuto complicarsi ulteriormente e dunque quella botte inservibile avrebbe potuto trovare una sua collocazione utile: gli oggetti non avevano mai finito di svolgere un qualche ruolo, la loro vita veniva prolungata di generazione in generazione, talvolta, in questo rispettosissimo itinerario, cambiavano anche funzione.
Ma l’inventario di Cristiano proseguiva con i «Vestiti della persona». E Cristiano altro non poteva lasciare alla nuora che indumenti maschili, essendo, allora, l’unisex ancora di là da venire: «Una camicia di canapa, un capello vecchio, un pajo di scarpe vecchie, un paio di calzeti vecchi, un paio di braghe vecchie…». Ahinoi, la nuora non poteva usufruire di nulla, ma certo in casa c’era sempre un maschio cui le scarpe vecchie andavano a pennello e un altro che il cappello ancora non l’aveva e ora poteva indossare quello del nonno: assieme al feltro si salvava anche la memoria.
Ben diverso è il tenore dei beni immobili: pezze di terra prative, qualcosa di arativo e di zappativo (poco del primo e più del secondo, considerata la morfologia di Campofontana), molto bosco. E una casa. Sì, «una casa discoperta, e mezzo diroccata con tre fenestre ferrate…»
Davvero è nelle storie minute, quotidiane, locali che si ha la possibilità di incontrare frammenti autentici di umanità.
Non ci è dato di sapere null’altro sulla nuora di Cristiano, nemmeno il suo nome di battesimo, nemmeno quanti figli avesse e che cosa ne abbia fatto di quell’”eredità”, ma possiamo usare un po’ di ragionevole immaginazione e vederla costantemente alle prese con difficoltà di ogni sorta. Che cosa mai poteva pretendere il fisco in una situazione socio-economica del genere?
Aldo Ridolfi (1 continua)