1. PREISTORIA? SCIENZA DEL DUBBIO. “Homo sapiens condominialis?”

…a cura di Giorgio Chelidonio

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Homo sapiens condominialis?

Homo sapiens, la nostra specie cioè l’unica oggi esistente sul pianeta, si sta evolvendo da almeno 200.000 anni, ma ha iniziato a trovarsi in condizioni “condominiali” appena 5.000 anni fa: Eridu, in Mesopotamia, pare sia stata la prima città strutturata (1) con case di canna e argilla: i suoi diciotto strati sovrapposti testimoniano altrettanti templi di mattoni, sopra i quali venne costruita la ziggurat a gradoni, testimone e modello della biblica “torre di Babele”. Ma già 2000 anni prima, quando era solo un grande villaggio e non una “città estesa per quasi 10 ettari, stava diventando “condominio” di gruppi variamente organizzati per attività economiche: gli agricoltori, i pastori e i cacciatori/pescatori. Dunque un punto di incontro fra gruppi umani dipendenti da ecosistemi differenti ma confinanti e fra loro interagenti. Quando questo avveniva in Mesopotamia (l’attuale Iraq) Homo sapiens veronensis non aveva ancora iniziato a progettare i primi “condominii” lacustri, cioè le palafitte. Anzi, spesso aveva preso ad arroccarsi su colline impervie, probabilmente perché facilmente difendibili, come il Monte Rocca a Rivoli V.se (VR), posto “a guardia” naturale della Chiusa di Ceraino e dell’Adige.
Ma i primi veronesi non erano “sapiens”, o almeno non li definiamo così: erano Neanderthaliani (2) e le loro tracce risalgono fra 90 e 40.000 anni fa circa, quando si estinsero per concause finora non chiarite.  Forse per paleo-simpatia, maturata in oltre 40 anni (da quando, per la prima volta, raccolsi, sulle colline di Castagnè di Mezzane di Sotto (VR), un loro strumento di selce), li ho simbolicamente scelti come testimoni per un “osservatorio paleolitico” sulle radici profonde dell’umanità europea: i Neanderthal furono i “primi europei senza se e senza ma” per quasi 200.000 anni (3). Vista questa loro lunga esperienza, vissuta in ambienti e climi molto variabili, oggi simbolicamente rasati e “in giacca e cravatta” possono affacciarsi sul nostro agitato tempo e, forse, suggerirci riflessioni più sapiens di quanto noi stiamo attualmente dimostrando.
Se il Neanderthal che ci osserva dal “balcone” della preistoria è il nostro testimone/guida, diventa utile (se non necessario) conoscere più da vicino la sua gente: per quasi un secolo li abbiamo rappresentati come rozzi cavernicoli, quasi uomini-scimmia. Poi, per qualche decennio, li abbiamo invece definiti Homo sapiens Neanderthalensis, ma, circa dal 2006, avvertendo gli effetti della nuova paleo-genetica gli abbiamo tolto il “sapiens”.  Proprio nell’anno successivo un articolo divulgò i risultati ottenuti analizzando il DNA fossile estratto da resti ossei di un tardo-Neanderthaliano (scoperti, giusto 50 anni prima, nel Riparo Mezzena – posto a 261 metri slm, vicino ad Avesa di Verona): vi si scoprì il gene MC1R la cui funzione, nel genoma degli esseri umani attuali, è regolare la pigmentazione. Per maggior precisione, non si trattava dello stesso gene attivo in Homo sapiens anatomicamente moderno, ma di una sua variante fossile: se ne dedusse che tale mutazione si fosse, probabilmente, manifestata durante l’adattamento di alcune popolazioni Neanderthaliane ai climi nordeuropei, cioè nei territori in cui erano “migrati” durante più precedenti fasi interglaciali calde. Confrontando questo paleo-gene con il suo equivalente umano attuale, si è dedotto che una percentuale, per ora imprecisabile, di Neanderthal avesse ereditato capelli rossicci, pelle chiara e scarsa tolleranza all’abbronzatura.  Questa scoperta, però, non fornisce solo un’immagine “nordica” dei tardo-Neanderthaliani ma apre anche ad altre considerazioni: sembra, infatti, che le persone attuali il cui DNA contiene una mutazione del gene MC1R (detta MC1R-RHC) siano predisposte a sviluppare melanomi cutanei, cioè tumori della pelle connessi, come fattore di rischio, all’esposizione ai raggi ultravioletti. Attualmente, i melanomi, pur essendo meno diffusi delle altre formazioni tumorali cutanee, sono molto più pericolosi perché provocano il 75% dei decessi legati ai tumori della pelle. Inoltre il loro sviluppo pare particolarmente connesso a casi di metastasi al seno, alle ovaie ma anche ai polmoni.  Si tratterebbe, dunque, di un rischio genetico con pesanti ricadute sulla fertilità femminile, che, se avesse avuto esiti simili sulle Neanderthaliane, ne avrebbe potuto limitare il potenziale riproduttivo, già significativamente compromesso dai citati indici di mortalità connessi al parto. Conseguentemente, una delle concause dell’estinzione dei Neanderthal potrebbe essere stato un aumento della mortalità femminile, indotta (indicativamente fra 55.000 e 40.000 anni fa circa) dal ri-adattamento ad ambienti sub-mediterranei dei discendenti dai “Neanderthaliani pallidi”, cioè quelli che erano migrati a sud durante il primo pleni-glaciale würmiano (fra 71.000 e 57.000 anni fa circa).
Nell’insieme questa ipotesi sembra aggiungere concause plausibili all’estinzione dei Neanderthal, ma la complessità crono-climatica e ambientale in cui i suddetti scenari migratori resta difficile da semplificare. Ma almeno ci suggerisce l’esistenza di popolazioni Neanderthaliane fra loro diversificate, nel tempo e nello spazio geografico, per adattamento ad ambienti e climi differenti.
Altre interpretazioni scientifiche affermano che già circa 50 mila anni fa i Neanderthal  fossero già quasi del tutto scomparsi, forse per un “collo di bottiglia” climatico-ambientale: successivamente, solo un piccolo gruppo di sopravvissuti sarebbe poi  riuscito a ri-colonizzare parzialmente i territori europei, poco prima dell’arrivo dei primi Homo sapiens anatomicamente moderni. A sostegno di quest’ultima J.L. Arsuaga (paleo-antropologo dell’Università di Madrid) ha anche precisato che ”all’epoca dell’arrivo dei sapiens, 40 mila anni fa, il numero delle femmine neanderthaliane presenti in tutto il continente euroasiatico non superava le 5.000 unità”.
In attesa che ulteriori studi paleo-genetici confermino o smentiscano il quadro demografico suddetto, bisogna accontentarci di alcune recenti considerazioni espresse da studiosi di livello internazionale, ad esempio:
– “ La genetica non ci dice quasi nulla sulla cognitività Neanderthaliana perché non ci dice quasi nulla sulla cognizione negli esseri umani”;
(i Neanderthaliani) “non erano mai stati in tanti, c’erano Homo sapiens che arrivavano da altri territori e si mescolavano con loro, e via via (i Neanderthal) sono svaniti”.
Sintetizzando, tale estinzione, articolatasi per tempi e per regioni, pare abbia permesso ai Neanderthal europei di convivere con i primi Homo sapiens per circa 4000 anni, una misura del tempo brevissima sul piano dell’evoluzione ma sufficiente per aver permesso incontri e, se geneticamente possibili, anche meticciamenti. A questo proposito pare illuminante il recentissimo studio di una mascella umana fossile morfologicamente attribuibile a Homo sapiens, rinvenuta nella grotta rumena detta “Peștera cu Oase” (cioè “la caverna delle ossa”): datati fra 42.000 e 37.000 anni BP, questi resti ossei hanno rivelato di contenere dal 5% all’11% di DNA neanderthaliano, cioè una percentuale davvero anomala rispetto ai normali valori paleo-genetici finora noti.  Su questa base si è dedotto che questo Homo sapiens abbia avuto un antenato Neanderthal vissuto non più di 4-6 generazioni prima.
Questa breve presentazione “paleo-genetica” dei “veronesi” di 50-40.000 anni fa avrà bisogno di altre recensioni per farceli conoscere più “da vicino”. Per intanto rimando alla lettura esplorativa dei link e dei libri citati qui di seguito.

Verona, 14.12.2015

Giorgio Chelidonio

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