11. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’aratro”
…a cura di Aldo Ridolfi
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11. Della coltivazione de’ monti: “L’aratro”
“Lavandare” è una poesia di Giovanni Pascoli, conosciutissima nella scuola elementare d’antan, e, per male che andassero le cose, mandata a memoria da quasi tutti gli alunni. Lì c’è un campo mezzo grigio e mezzo nero e dove i due colori si incontrano giace un aratro: «resta un aratro senza buoi che pare / dimenticato». Pascoli la scrisse nel 1891. Noi la si imparava a memoria in IV o V elementare. Ed era vita vissuta, ché, recandoci a scuola, la si vedeva quella scena, se non uguale, simile. Ogni famiglia contadina possedeva un aratro, ogni bambino lo conosceva, ci saliva sopra quando era riposto sotto il portico, ma anche, talvolta, durante le operazioni di aratura. Era il 1955 o lì attorno. Poi, quell’aratro destinato al tiro dei buoi è scomparso, sostituito da altri più grossi, agganciati ai trattori.
Ebbene Lorenzi, nel suo poema, non poteva trascurare l’aratro, strumento principe insostituibile per ogni forma di agricoltura, e lo cita numerose volte.
Lo cita alla stanza X, a proposito di terreni vuoti di biade ed infestati di pruni e di erbacce, inselvatichiti: ebbene, questa è terra «da l’aratro illesa». Illesa, certo, ché l’aratro dissodava, sradicava rovi e pruni, strappava il codego, rivoltava la terra, la penetrava senza pietà per portarla a frutto. Ma, come era espressione di una forza primitiva e arcaica, l’aratro era anche strumento semplice e docile posto al servizio della vita. E coglie, Lorenzi, in una lettera inviata nel ’21, alla contessa Silvia Curtoni Verza, proprio questa dimensione dell’aratro: racconta che questioni belliche hanno tolto i buoi «al pacifico aratro». Quell’aggettivo, pacifico, contiene sia l’idea della tranquillità e della mitezza sia, etimologicamente, la volontà di mantenere la pace. Così Lorenzi riporta – lo fa decine e decine di volte – ogni cosa alla dimensione agreste e bucolica, serena e laboriosa, che tanto gli è cara.
I terreni rocciosi, poi, sono nemici dell’aratro. Osserva ancora l’abate in un’altra lettera, inviata da Mazzurega il 18 maggio del ’21, ancora alla «molto benemerita amica nostra» Silvia: «Il sasso mi è sempre incomodo. Contrasta con i buoi e con l’aratro…». E riprende la stessa situazione nella stanza XLVIII del suo Inverno dove la roccia «offende l’aratro». Così era, per oculare nostra attendibile testimonianza. L’incontro della roccia con l’aratro era sempre un piccolo dramma e portava scompiglio quando il vomere s’impiantava in una rupe invisibile sotto il livello del terreno e la “scartà” si piegava inesorabilmente, talvolta anche si spezzava, impedendo il proseguimento del lavoro. Bisognava, allora, toglierla svitando alcuni bulloni, portarla dal fabbro, quasi sempre presente in paese, farla raddrizzare e rimontarla. Ciò accadeva spesso nonostante il montanaro conoscesse a palmo a palmo il suo campo e fosse in grado di prevedere dove vi erano affioramenti rocciosi.
Coglie un’immagine simile a quella pascoliana, Lorenzi, nella stanza LXXVI: «Dorme intanto il bifolco, e oſcuro ed atro / il poder giace, e ’l ruggínoso aratro». Sul rugginoso aratro i bambini – che eravamo – degli anni Cinquanta possono, avendo custodito, adulti, la memoria, dire qualcosa: che ci piaceva scorrere le dita e le mani sul vomere che aveva lavorato a lungo il terreno, perché risultava liscio e lucente come specchio, mentre lo stesso vomere diventava repulsivo dopo mesi di mancato uso: la ruggine lo copriva, la lucentezza svaniva, diventava specchio opaco. Simbolicamente richiamava l’ozio, vizio condannato in ogni momento della giornata, da ogni maestra, da ogni prete. Gli oggetti, le cose, diventavano metafora dei comportamenti morali.
Ecco, qualche decennio più tardi, pochi, pochissimi a far bene i conti, tutti questi aratri sono finiti sotto fatiscenti portici, qualcuno è stato abbandonato al margine di campi anch’essi prima trasformati in prati, poi in pascoli e infine riconquistati da bosco. Ma l’aratro, l’aratro è rimasto, per noi, uno dei simboli di quegli anni meravigliosi, sinonimo di fatica, di sudore, ma anche di pane e, non so bene dire perché, di onestà, di serenità, di profondo rispetto della natura.
(Aldo Ridolfi, continua)