22. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “Ancora lotte: la natura non è proprio benigna”.
…a cura di Aldo Ridolfi
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22. Ancora lotte: la natura non è proprio benigna.
Un altro episodio drammatico ci racconta l’abate Lorenzi. La campagna, la collina, Mazzurega non sono avare di esperienze per chi sa osservare, ed egli è tra questi. C’è una madre che ritorna al nido portando il cibo alle sue indifese creature, una madre
che trovar i figli crede,
torna con l’esca in bocca a l’arbor fido
ma l’aspetta il dolore più grande, la delusione più profonda:
e guarda intorno misera, e non vede
altro che il vuoto e depredato nido. (CXLIX).
Nel paradiso idilliaco dei monti, nella bellezza georgica delle colline, si svolgono quotidianamente scontri feroci che segnano, con il marchio indelebile del dolore, anche la vita di chi sembra non essere dotato di autocoscienza, come un passero, un merlo, una lepre…
Ai quali, tuttavia, il poeta riconosce che
il supremo artefice immortale
lor doni ingegno a la fortuna uguale
e che
spirito vivace
informi gli animai che sono in terra
Per cui ciascuno in suo desir, non erra». (CXLIII)
Temi, questi, che saranno anche del sommo Leopardi, il quale, dubbioso, qualche decennio più tardi scriverà: «O greggia mia che posi, oh te beata / che la miseria tua, credo, non sai!» Temi che svelano senza artefici retorici quanto drammatica, e incomprensibile, sia la vita. Ben ne era cosciente Lorenzi se in due versi di una sua poesia dice di sé: il Signore «vivo mi tiene ancora, e non mi lascia / partir dal Mondo senza penitenza». È la drammatica esperienza del dolore che accomuna tutti gli esseri viventi.
Ma torniamo al depredato nido, alla madre che disperata vola di ramo in ramo. Ascoltiamolo Lorenzi un po’ più diffusamente in questi versi magistrali per forma e contenuto (il soggetto è sempre la madre):
E perché a tanto mal non sa dar fede
spesso gli chiama, e ne raccoglie il grido,
se da vicino, o in più riposta fronda
a lei, che piange sì qualcun risponda. (CXLIX).
E ancora, nella strofe successiva:
E va, e vien da questa a quella parte
spesse fiate come amor la mena,
e poiché tanto errò su l’ali sparte,
che stanca in aria si sostiene appena:
da un ramo a l’aura miserabil parte
fa de la doglia sua, de la sua pena,
e guarda il cielo, e guarda la campagna,
e non cessa un momento che non piagna.
Un destino crudele, leopardiano appunto, coinvolge anche gli animali, costringe nelle sue ferree, inamovibili leggi anche gli uccelli, simbolo della libertà e della gioia. A noi verrà certo in mente il “10 agosto” di G. Pascoli: i poeti parlano tra di loro anche senza conoscersi, anche senza incontrarsi, anche da un secolo all’altro. Anche là c’è un volatile, una rondine: i ruoli si invertono, ma il dolore è identico. Pascoli – intanto siamo giunti agli ultimi anni del 1800 – ferma, nei notissimi versi, una rondine uccisa mentre sta portando il cibo ai suoi piccoli che non rivedranno più la madre e pigoleranno sempre più piano:
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Ecco, siamo giunti alla fine anche di quest’altra puntata sulla coltivazione dei monti dell’abate Lorenzi. Forse non c’è spazio, questa volta, per il solito noioso mantra sulla frattura avvenuta negli anni Cinquanta del secolo scorso, o forse sì, lo spazio c’è e ce la caviamo in fretta davvero. Già, perché nelle scuole elementari si potevano tranquillamente leggere cosette del genere:
Piccolo nido, lì sotto la gronda
sei stanco, è vero? Stanco d’aspettare!
Or, tra poco la rondine gioconda
ripasserà per te, tutto quel mare!
(Bruno Vaccari, Biancospino. Letture per la classe IV, p. 143)
Siamo, di nuovo, molto vicini a Lorenzi.
(Aldo Ridolfi, continua)