3 – DI TASSA IN TASSA: “La tassa sul macinato in Lessinia”

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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(clicca sulle 2 foto)

Il disegno 1 esemplifica l’impianto di un mulino: è visibile il vajo da cui prendere le acqua, la condotta con pendenza regolare, due mulini in coppia, le acque eventualmente utilizzate per adacquare.

 

DI TASSA IN TASSA: “La tassa sul macinato in Lessinia”

Terza puntata: «Del funzionamento dei mulini, 1»

I mulini, che si contavano numerosi nelle alte valli della Lessinia, sorgevano tutti presso i corsi d’acqua, i vaj, un tempo non infestati da rovi e da alberi sradicati e in via di marcescenza come accade oggi. Si racconta anche che fossero più ricchi d’acqua e che avessero un regime, sempre torrentizio ovviamente, ma un po’ più regolare, condizioni, queste, essenziali per impiantarvi un mulino ad acqua. Si trattava pur sempre di un investimento che doveva avere un suo rientro economico, né più né meno di come si ragiona oggi. La scelta del sito era spesso infausta perché doveva tenere conto della presenza abbondante di acqua e ciò si verificava in valli fuori mano, talvolta scoscese. Qualche volta le cose andavano meglio e i mulini insistevano su conoidi o su terrazzamenti decisamente meno impervi.
Il primo problema tecnico da risolvere era proprio la conduzione delle acque torrentizie al mulino. Infatti era necessario captarle a monte e portarle al mulino con un condotto artificiale la cui pendenza veniva meticolosamente calcolata: le acque captate con un sistema detto stramasso non dovevano impaludare né possedere eccessiva foga perché ciò avrebbe eroso la condotta in gran parte costituita da terra battuta, ma anche da pietre e legname. Tutti elementi che si trovavano sul posto, una forma di autarchia davvero a chilometri zero, ma rispettosa delle risorse ambientali e non inquinante! Oggi le tracce di queste condotte sono pressoché scomparse. Con un colpo d’occhio fortunato è possibile vederne una, appena riconoscibile, presso contrada Bruschi, lungo la strada che da Selva di Progno porta a Velo Veronese.
Inutile aggiungere che la condotta aveva bisogno di regolare manutenzione: pulizia da foglie e terra che regolarmente riempivano il canale; sostituzione delle pietre rotte o che avevano perso la connessura e che quindi facevano perdere una certa quantità di preziosissima acqua; rinforzo degli argini in terra battuta con l’utilizzo di zolle di codego, ovviamente reperite sul posto. I parametri e i protocolli erano sempre suggeriti dalla tradizione, da ciò che aveva fatto il padre e prima il nonno. L’esperienza guidava la mente e le mani di quella gente a compiere le scelte giuste, ché ne andava della loro stessa vita.
Talvolta, quando l’acqua aveva fatto il suo lavoro muovendo una o più ruote a pale (in Provenza, a Barbegal, è documentato un sito di epoca romana con ben 8 ruote disposte lungo un pendio collinare utilizzanti la stessa acqua), veniva utilizzata per adacquare i terreni circostanti posti ovviamente ad un livello più basso. Il disegno n° 1 intende mostrare il percorso dell’acqua condotta dal vajo al mulino e successivamente utilizzata per adacquare.
Nei pressi del mulino le acque finivano in un bacino di raccolta, di una certa significativa capienza. Ciò si faceva per avere una caduta il più possibile regolare delle acque sulla ruota a pale e garantire così una macinazione più efficace. Ma la riserva d’acqua garantiva una minima autonomia operativa anche quando l’apporto del vajo era minimo, durante le siccità estive o le ghiacciate invernali.

Più precisamente qui si mette in evidenza lo stramasso, il bacino di raccolta e la ruota a pale, tutti elementi esterni al mulino ed essenziali.

 

Il disegno n° 2 mostra in particolare lo stramasso all’origine della condotta e il bacino di raccolta.
Quando il mugnaio apriva il registro e l’acqua cadeva  sulla ruota a pale, l’operazione di macinazione aveva inizio.
Di quello che accadeva dentro il mulino parleremo la prossima volta.

 

 

 

 

Aldo Ridolfi (3 continua)

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