34. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Estate – Campagna e Città”

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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               34. CAMPAGNA E CITTA

Le stanze XLIX e L propongono due diverse letture di un’umanità divisa su due opposti versanti. L’opposizione sociale e culturale tra volgo e nobiltà è tema che attraversa tutto il poema, senza peraltro assumere toni drammatici e meno che mai aggressivi, rivoluzionari o reazionari. Essa, invece, contribuisce a rappresentare gli strati di una società, a partire dalle fatiche dei villani – compensate però da un legame profondo con la natura – per arrivare alla frivolezza e alla corruzione dell’aristocrazia.
Vediamo come.
Nella strofe XLIX viene presentato il «falcato villan», il mietitore munito di falce, mentre nell’ottava successiva, dunque in due stanze dirimpettaie, contrapposte, ecco qualcosa che ricorda il pariniano “giovin signore”, qui reso con circonlocuzione poco onorevole: «Chi cova nel letto».
Si apprezzi l’energia vitale presente nei versi di Lorenzi nel mentre confronta due opposti destini sociali.
Ecco il montanaro:

de i falcati villan la turba fuora
esca su l’erba rorida lucente:
fischi l’acuta lama, e s’apra il varco
ricca di mille vite al trar d’ogni arco. (strofe XLIX)

Ove la ricostruzione sintattica, già peraltro chiara e semplice, recita: la turba de i falcati villan esca fuora su l’erba rorida (bagnata di rugiada) lucente (l’umidità sotto la prima luce luccica). Segue poi l’incitamento che permette a Lorenzi di descrivere il movimento caratteristico del falciatore: fischi l’acuta lama e ad ogni colpo (ogni arco) si faccia spazio e tagli in sol colpo «mille vite», cioè mille erbe. È un inno innalzato con linguaggio pacato e nobile, espresso con l’entusiasmo di chi trova nel lavoro, qualsiasi esso sia, la santificazione della giornata.
Ecco invece il cittadino:

Oh qual perde piacer chi cova il letto
in sì bei giorni a le cittadi in ſeno!

Chi “cova il letto” non è certo il villan, al lavoro ancora prima dell’alba, con la falce fienaia. Qui Lorenzi prende di mira chi non ha occupazioni, chi al mattino dorme chiuso nella sua casa di città. Non è un privilegio ma una maledizione perché quell’uomo sarà perseguitato dal tedio e dalla noia e perderà così il fascino dei bei giorni estivi alzandosi presto e rimanendo a contatto con la natura. Si perde immagini e suoni, né

sa quanto sia dolce ombrosa balza
premer sedendo allor che ’l dì s’innalza .

La natura è fonte originaria di vita, è un “sentimento” capace di rigenerare il singolo e la comunità. La natura in Lorenzi non è ricerca del sublime e del misterioso che portano alla malinconia romantica. Non vi ricerca intimità, piuttosto canta la partecipazione corale alla grandiosità del creato. Il ripiegamento preromantico in se stessi è qui assente a favore di un primato del lavoro, modalità per eccellenza di partecipazione sociale e comunitaria.
La coltivazione della terra è l’unica vera fonte di ricchezza. In quegli anni i georgofili studiavano la natura e ne promuovevano la conoscenza. Ci deve essere stata, per Lorenzi e per la temperie culturale di quei tempi, una sostanziale fedeltà alla propria terra, fonte di sicurezza e di progresso. A questo proposito è interessante e piacevole leggere e rileggere la strofa CXL:

Quel dì gli nocque in cui giovane ancora
l’imprudente signor mosse lontano,
da le avite colline, e a far dimora
venne de’ cittadin tra ’l vulgo insano.
Né contento di ciò sciolse la prora
i perigli a tentar de l’oceano,
infeconda campagna; e i tesor sui
vi spese incauto, e non lucrò gli altrui

Oggi, in epoca di piena e osannata globalizzazione, all’abate Lorenzi non si può dare ragione e anche negli anni Cinquanta, con le massicce migrazioni già da decenni iniziate verso la Merica e all’interno della stessa nostra nazione, un così caparbio attaccamento alla terra viene rapidamente meno. Ma io penso, nel segreto del mio cuore, che sia ancora presto per dire chi ha ragione e chi ha torto.

(Aldo Ridolfi, 8 fine)

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