37. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Autunno – Una presentazione dell’Autunno”.

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

Per le tue domande scrivi a: aldo.ridolfi@libero.it 
               37. Viti e uve: verso la vendemmia

Autunno è tempo di caccia, anche Lorenzi ne fa cenno proprio nelle prime stanze, ma abbandona in fretta l’argomento attratto dalle uve mature, dai tralci generosi, dalla bellezza dei grappoli e dai turgidi chicchi:

Io d’altri studj vago al colle amato
vado d’intorno a visitar le viti (stanza XIII)

Par di vederlo l’abate passeggiare lungo i filari e ammirare, è proprio il caso di dirlo, tanta grazia di Dio. E non era necessario essere né sacerdoti né abati per godere quando le uve abbondavano. Ogni contadino, al pari dell’abate, guardava soddisfatto il frutto giunto a maturazione: aveva superato i mesi siccitosi e i temporali grandinigeni per giungere al momento favoloso della vendemmia. Già Ugo Foscolo nel suo famoso carme aveva trovato spazio per «i tuoi colli di vendemmia festanti». Ancor più convincente Lorenzi che traccia un ritratto a rima baciata dell’uva:

si gonfia, s’addolce, e si fa negra,
e la speme, e la vita empie e rallegra. (stanza XV)

Così era anche nella nostra infanzia, in collina, dove ogni famiglia poteva contare su alcuni filari di viti, raramente disposti in vigneto, più spesso impiantati lungo le “marogne”, i muretti a secco che caratterizzavano ampi stralci delle dorsali. Le mani callose di quegli uomini accarezzavano i grappoli, gioivano già pensando ai giorni meravigliosi della pigiatura, al vino che si sarebbe di lì a poco ricavato. Ancora nel 1960, nel numero dell’11 settembre del “Corriere dei Piccoli”, si poteva leggere: «“Evviva, evviva” / gridavano i bambini alla prim’uva / e si diedero allegri a piluccare». Ma gli anni Cinquanta erano anche gli anni in cui, con i gessetti colorati e con bella scrittura, la maestra alla lavagna scriveva poesie e noi si ricopiava felici perché si vedeva coincidere la pagina del libro con la propria esperienza, come in questa poesia di Ada Negri:

E canti furono, canti
di fresche giovani vendemmiatrici
erti canestri sul capo
fra l’eterna bellezza del cielo
e l’eterna bontà della terra.

Assieme al piacere per le uve mature, però, l’abate non demorde sull’impegno del contadino che egli vuole sempre vigile. Le attenzioni in questa fase devono essere rigorose. Lorenzi fa notare che ci può essere una tale produzione che i tralci non riescono a sostenerla:

e intanto, dove i grappoli fan arco,
mal regger ponno al rigoglioso incarco. (stanza XIII)

La soluzione, però, è lì, pronta, a chilometro zero, basta andare nel bosco o essersi preparati con largo anticipo lo strumento necessario: «Bicorne forca chieggono sostegno» (stanza XIV), ove la forca bicorne altro non è che un robusto palo di sostegno terminante in alto a forma di Y entro cui sistemare il tralcio appesantito dall’eccessiva uva.
Ma sollevare i grappoli dal terreno era operazione necessaria anche per altre ragioni. I grappoli troppo vicini al terreno ricevono eccessivo calore oppure, sbattuti dal vento, si rompono:

Se a l’aria s’alzeran, scema l’ardore
de l’esalata rugginosa vampa; (stanza XV)

O se vento le scuota lacerarse,
e i sassi insanguinar da cui son rose. (stanza XIV)

Ben fa, dunque, Giuseppe Rama a ricordare un proverbio, di sicuro oggi del tutto dimenticato, ma certo da lui raccolto da informatori che l’esperienza l’avevano vissuta: “Végna sensa pal, no pol star en pie’”. Oramai questi ricordi, queste minime strategie di sopravvivenza (ma che non hanno mai prodotto pfas), si possono leggere solo sui libri di raccoglitori disinteressati, ammesso che queste carte vengano diligentemente conservate.

 (Aldo Ridolfi, 2 continua)

↓