38. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Autunno – La preparazione dei tini”
…a cura di Aldo Ridolfi
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38. La preparazione dei tini
A quel punto i tini dovevano essere pronti per accogliere il vino. A questo scopo, però, era necessaria una manutenzione lunga e attenta, così importante che il Lorenzi richiama l’immagine dell’ “arzanà”, l’arsenale, il luogo dove si costruivano e si riparavano le navi. Scherza, l’abate, con la sua ironia sottile e divertente, nel primo verso della stanza LX proponendoci l’immagine di questo arsenale campagnolo:
Così nuovo arzanà lunge dal mare
convien che la villa apra, e colla pece
le inferme botti a ristorar impare,
ricalchi i cerchi, purghine la fece.
Le ristoppi, le spalmi, e fabbricare
nove ne sappia de le vecchie in vece;
A ciò richiama anche l’incisione posta in apertura di quest’ultimo canto. Un artigiano (ma tutte queste professionalità in quegli anni erano presenti in famiglia, con una suddivisione rispettosa delle singole vocazioni) sta preparando la botte che, durante l’estate, pur riposta in cantina lontana dal calore del sole, è diventata alia, cioè si era sdogata.
Le cave botti, che la cella asconde,
ritor da l’ ombre e porre al sol t’ avvisa. (stanza LI)
In ottobre era dunque necessario toglierle dalla cantina (dall’“ombre”) e portarle all’aperto. La prima operazione consisteva nello stringere i cerchi affinché le doghe riprendessero a connettersi perfettamente. Ciò veniva fatto con l’ausilio di due martelli, uno per battere e un altro, tenuto saldamente con la mano sinistra, era dotato di una particolare forma che veniva appoggiato al cerchio e ad esso combaciava. Esattamente come nell’illustrazione, esattamente come negli anni Cinquanta. Esattamente come racconta Lorenzi:
De’ gemini martelli a i spessi colpi
rimbombi il dolio, e la tentata doga; (stanza LII)
I martelli son detti “gemini” perché, appunto, lavorano in coppia; essi, con i loro colpi, facevano rimbombare il tino (qui dolio, vaso) e le doghe.
Ma il lavoro attorno ai tini non finiva qui. Ancora nella stanza LII Lorenzi suggerisce altre operazioni:
La tartarica gromma se ne spolpi,
e la feccia che ingrato odor disfoga
con rotate catene, ed onde, e faci,
e di peci, e d’allor fumi mordaci.
Qui, davvero, l’abate ci riporta agli anni Cinquanta quando talvolta erano i bambini ad essere infilati entro i tini più grandi, cui erano stati tolti i “fondi”, per grattare la gromma. Lorenzi non suggerisce di mandarci i bambini, consiglia invece di sbatter l’interno della botte con “rotate catene” e con fiaccole (faci) bruciare impurità e incrostazioni. Si devono anche pulire dalla “feccia”, la morchia che si deposita al fondo «che ingrato odor disfoga». Ma ancora non è finita: la pece ha il compito di chiudere eventuali piccole disconnessioni e i profumi di alloro completano l’opera di ripristino dei vesoti o vedoti che dir si voglia.
Ricordo altri due proverbi raccolti da Giuseppe Rama: rendono perfettamente l’idea dell’importanza della preparazione delle botti, “La bóta l’è la mare del vin”, e del lavorio incessante richiesto per la preparazione del vino “Otobre en cantina da sera a matina”.
(Aldo Ridolfi, 3 continua)