5 – IL TERRITORIO E LA MEMORIA: STORIE POCO NOTE: “La stalla del Modesto”
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La Stalla del Modesto
«Non è assolutamente pensabile un raggruppamento sociale
in cui non sia possibile attestare forme
di una cultura del ricordo»
(Jan Assmann)
«Il luogo è evidentemente una parte integrale dell’esistenza.» L’affermazione è di Christian Norberg-Schulz, che non svela verità metafisiche, ma dà credito a ciò che esperiamo tutti e con grande profitto, ogni giorno. E, beninteso, ci auguriamo che continui ad essere così. Perché gli spazi della nostra vita, giorno dopo giorno, assurgono a valore esistenziale, peraltro senza perdere le altre loro caratteristiche, ugualmente necessarie, ma subordinate: economiche, geografiche, storiche, geologiche,…
Ecco, la stala e la giassara del Modesto lì ci portano, nel cuore di questo problema. Quel luogo, quel manufatto, oggi, 2017, ha perso le sue valenze economiche e con difficoltà mantiene quelle storiche, ma a passeggiare lì attorno per qualche tempo si ritrovano diverse sfaccettature esistenziali.
La Stalla del Modesto si trova nel comune di Roveré Veronese, si raggiunge percorrendo l’ultimo tratto di strada a piedi, lungo un sentiero nel bosco. Nel 2007 è stata insignita di un riconoscimento internazionale nell’ambito della manifestazione “Marmomac”.
Forse è necessario rispettare un certo silenzio e approcciarsi al manufatto come di chi “ha cura delle cose”. E convincersi, strada facendo, che si sta oltrepassando una soglia oltre la quale le percezioni devono cambiare.
Le dimensioni che la Stala del Modesto incorpora sono molte. E qualcuna anche segreta, ma svanita con la scomparsa, all’inizio del Novecento, di Modesto Paggi, il costruttore. A noi rimangono, attorno a queste dimensioni segrete e personalissime, solo ipotesi. Rispettose, tuttavia, come di chi sa di toccare le corde più segrete e profonde che fanno agire una persona. E allora, ecco, immagino che la stalla diventi sfida per Modesto. Il suo progetto, redatto senza righe né matite, stava in un’area della sua mente. E vi lavorava chissà da quando, chissà perché. C’era, mi pare di dover ipotizzare, un’immagine mentale e la suggestione della sua psiche; e c’era la realtà ruvida della terra e della roccia, percepita, da Modesto Paggi, come opportunità, non come limite. E l’idea, in Modesto, prende forma coniugandosi con quella sostanza materiale. Senza “se” e senza “ma”. In assoluta libertà. Che è la conditio sine qua non per ottenere, di tanto in tanto, l’opera d’arte. E derogando anche da ogni buon senso fisico, da ogni subordinazione alla materia. Piegando l’impossibile al possibile. Il tempo e la lentezza diventano i suoi amici fedelissimi. Ci pensa e ci ripensa anche “terminato l’orario di lavoro”.
Così, come un rabdomante della pietra, Modesto rintraccia gli strati di “rosso” a se stesso necessari. Forse gli guardava già da bambino, tenuto per mano da suo padre. Li scolla dalla terra, in tutta la loro gigantesca interezza. Sembra un furto, ma non lo è. Li trasporta, li raddrizza, vi scalpella gli incastri. Sa bene che il marmo non è il legno, ma vuole questo corpo a corpo col sasso, questa contaminazione, come marchio, segno, inconscia e mai svelata metafora, perfino simbolo che oltrepassa l’uomo e la sua storia biologica. E le spinge una sopra l’altra quelle lastre, verso il cielo, non come nuova Babele, ma piuttosto come alfabeto svelante noi e la nostra vocazione di uomini. E vi colloca sopra un tetto, vi pone delle aperture, tira il filo a piombo e lo rispetta, al millimetro. L’abita! Infine.
Così Modesto Paggi si identifica con il luogo e ciò gli consente di abitare nel senso più autentico, più pieno, più suo. Esente da qualsiasi forma di parassitismo burocratico.
Allora completa l’opera con la giassara. O forse il rapporto è inverso, non lo so. Ma è l’insistere su “quel” luogo che aggiunge magia alla magia, significato al significato. Anche i luoghi sacri insistono, pur su distanze diacroniche lunghissime, su scelte precedenti.
La giassara richiede la pozza e la pozza risponde ad una ben precisa fisicità: l’acqua deve essere trattenuta anche dove è morfologicamente impossibile. Se serve un muro di contenimento lo si fa. A secco. Rotolando un sasso alla volta, trovando le forme gemelle, picchiando martellate che sono carezze. Aggiungendo terra dove manca. Se c’è la pozza c’è la giassara. Anch’essa con forme non allineate. «Sono Modesto Paggi e questa deve essere la mia giassara», dove il “mia” non sottolinea l’idea di possesso materiale, di accumulazione capitalistica, piuttosto reclama una proprietà non giuridica ma esistenziale.
Così mi piace leggere la Stalla e la Giassara del Modesto. Senza dare i numeri, le dimensioni, le date, ma cercando di incontrare, assieme alle mura di lastre, soprattutto l’uomo, el Modesto. Quanto sia lecito non lo so, ma a me ha fatto bene.
Aldo Ridolfi – (5 continua)