6. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: La dedica all’Arciduca
…a cura di Aldo Ridolfi
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6. Della coltivazione de’ monti: La dedica all’arciduca
Bartolomeo Lorenzi dedica il suo poema Della coltivazione de’ monti all’arciduca Ferdinando d’Austria. Inizia con un breve richiamo autobiografico che ha tutta l’aria di apparire sincero ed autentico, espressione di tutta la sua vita. Infatti il poema è «frutto d’ozio segreto», ove ozio evidentemente ha il significato dell’otium latino, ed è «nato in gran parte fra gli orrori de’ monti», ove orrore ha valenza positiva di “sacro orrore”, un sentimento di ammirazione e di timore davanti agli spettacoli della natura, e questi sono più degni di venerazione sui monti ove la natura mostra il suo volto più selvaggio e più sublime. Ma se lì il poema è nato, esso è stato «coltivato tra le solinghe meditazioni de’ studi agresti»: vista la vita del suo autore, quale l’ha raccontata Bartolomeo del Bene, abbiamo anche qui buoni motivi per ritenere sincera e profondamente avvertita anche questa nota. E depone anche a vantaggio dell’opera e del suo autore sapere questi versi frutto e dell’esperienza sul campo e della riflessione silenziosa.
Chiarita la spinta interiore che ha mosso la sua penna, Lorenzi si rivolge al nobile governatore della Lombardia austriaca, carica che l’illustre personaggio aveva assunto nel 1771, sette anni prima della pubblicazione del poema.
L’abate è generoso di lusinghe, come era nello stile del tempo, nei confronti dell’arciduca, invocato come «Principe Filosofo» e dunque in grado – «per copia di scientifica erudizione intelligentissimo» – di apprezzare il suo lavoro. Lavoro, peraltro, che ha potuto vedere la luce grazie alla «Reale aspettazione» dell’arciduca di volerlo compiuto; senza tale «aspettazione» il poema non sarebbe giunto al traguardo. È tale il valore riconosciuto al “principe Filosofo” che Della coltivazione de’ monti ha un padre, Lorenzi, ma ne ha anche uno putativo, l’arciduca appunto, e dunque, l’abate è esplicito: «mi divenne quasi religione il pensiero di renderla alla Reale Altezza Vostra qual cosa sua»! Anzi, arriva perfino alla sottomissione Lorenzi quando scrive: «Supplico la Reale Clemenza a non isdegnare si tenue dono» e definisce il suo generoso gesto di dedicare il poema all’arciduca perfino «soverchio ardimento». Mentre da un lato Lorenzi sminuisce ogni suo verso, ogni sua rima, perfino i contenuti e la pedagogia agraria: «non istarò ora a difendere l’argomento dei versi», dall’altro esalta oltre ogni misura le competenze del principe, per le quali non ci sono parole bastevoli a descriverle, essendo il principe «per copia di scientifica erudizione intelligentissimo» – lo abbiamo appena visto – ma anche, «per esperienze di studi fisici interrogatore acutissimo della natura»: i superlativi non mancano, come si vede.
Ma, per rispetto della pars condicio, non poteva mancare, nella dedica, almeno un riferimento alla Reale Sposa nella cui Clemenza (con la “C” maiscola!) Lorenzi ripone le sue speranze, pur cosciente che le orecchie della consorte sono «avvezze del domestico Omero celebratore di Patrj Eroi», e tuttavia è speranzoso che tali orecchie nobili «non soffeser» dei suoi certamente più umili versi.
In tutto questo gioco di umiltà cui Lorenzi si sottomette volentieri, anzi con entusiasmo, un aspetto egli salvaguarda con decisione e senza mezzi termini: la devozione. Infatti invita «a riguardare piuttosto l’animo che io ho giusto e buono, e ricreare d’un guardo le condizioni d’un cliente, che non ha miglior modo per riconoscere il suo Signore che quello di consacrarli coi proprj studj la divozione e l’ingegno».
Aldo Ridolfi – (continua)