7. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: Inverno. Prima stanza.
…a cura di Aldo Ridolfi
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7. Della coltivazione de’ monti: Inverno. Prima stanza.
Ecco l’incipit del poema, ecco la prima stanza. Leggiamola e rileggiamola. Magari a distanza di qualche tempo. Aderendovi. Anche fisicamente. Ed essa apparirà chiara e trasparente.
Qual cura il buon villan de’ monti aprici,
qual debba averne il suo signore io canto,
o spogli il verno i gioghi, e le pendici,
o gli ritorni primavera il manto.
Voi semplici dei colli abitatrici
donne e donzelle, or mi sedete a canto;
e voi bifolchi, ed arator possenti,
date udienza a i miei veraci accenti.
L’abate apre con brio il suo poema, con allegria, nonostante l’inverno sia stagione grigia e buia, con giornate corte e notti lunghe e fredde. Una vivacità comprensibile, prevedibile ché per Lorenzi il lavoro dei campi è apportatore di benessere, nonostante la fatica, ed è attività che ignora l’ozio, il padre di tutti i vizi. E palesa, l’abate, fin dal primo verso il suo intento pedagogico, sia esso il frutto di un suo sentire profondo o sia anche solo l’adesione ad uno stile, ad una consuetudine diffusissima in quegli anni di poesia didascalica. Lo manifesta proprio con i primi due termini “Qual cura”, quale cura si debba avere per i monti aprici, esposti al sole. Anche quest’ultima scelta lessicale è positiva, ottimistica, ché non tutto, per la verità, sui monti era “aprico” e spesso il villan doveva confrontarsi anche con le aree “al tramontan”, ben più difficili e avare di raccolti. Ma conta poco perché Lorenzi mette al bando lungo tutto il poema ogni lagna a vantaggio di una condivisione spontanea e sincera alla vita campestre. Come anche altri, in quei decenni, faceva. Infatti Giuseppe Parini, qualche tempo prima scriveva:
«Io de’ miei colli ameni
nel bel clima innocente
passerò i dì sereni
tra la beata gente
che, di fatiche onusta,
è vegeta e robusta».
E Pindemonte, con appena percettibile ricorso mitologico:
«Fonti e colline
chiesi agli dei:
m’udiro al fine,
pago io vivrò».
Ma torniamo a Lorenzi. Segue quel maestoso «io canto», sottolineatura retorica se si vuole, ma anche coscienza precisa del suo valore come poeta didascalico, come uomo di cultura, come accademico. E canta, Lorenzi, il bel mondo della natura visto qui con gesto panoramico attraverso la lente delle stagioni:
«o spogli il verno i gioghi, e le pendici,
o gli ritorni primavera il manto».
Con questo ponendosi – ma non poteva essere diversamente – entro la ciclicità stagionale che fungeva da perfetto e sempre esperibile segnatempo.
Ciò è avvenuto, qui da noi, fino agli anni Cinquanta, ma ha insistito, per esempio nella didattica della scuola dell’obbligo, per un altro decennio ancora e in qualche nicchia di maestri “ritardatari” anche di più. Ed era bello, bello semplicemente, disegnare, in classe, la neve sui tetti delle case quando nevicava e le foglie che cadevano indugiando a mezz’aria in autunno. Ora la ciclicità stagionale, sganciatasi da un contatto reale, diretto e prolungato con la natura, con i cambiamenti nel regime delle piogge, soprattutto con l’esperienza del freddo, vero tiranno per cinque, qualche volta sei mesi all’anno, ha poco senso. Ha perso significato ché si scia d’estate su piste artificiali e si nuota d’inverno entro piscine riscaldate. Altri tempi, altri valori, altre emozioni.
Infine Lorenzi si rivolge alle persone. I montanari e le montanare non sono mai assenti nel suo lavoro: ne faremo una puntata apposita perché se lo meritano loro e perché lo dobbiamo a Lorenzi. Alle giovani donne accosta la virtù somma della semplicità, dell’umiltà e a sé le chiama: «Voi semplici de’ colli abitatrici». Non aggiunge altro, non si spinge, come il Parini a decantare «i baldanzosi fianchi / de le ardite villane»! Comunque, un poco imbroglia le carte il nostro poeta ché il suo pubblico indugia piuttosto negli ambienti dei letterati e degli accademici, i soli capaci di apprezzare appieno la sua arte. E tuttavia Lorenzi a Mazzurega si incontra anche con il mondo contadino e ciò è sufficiente a dargli il diritto di usare quel vocativo. Assieme al mondo femminile Lorenzi si rivolge anche a quello maschile. Intanto, con perfetta galanteria, lo pospone a quello femminile, poi ne coglie la vigoria, la forza, la dedizione: «e voi bifolchi, ed arator possenti». Ove “bifolchi” non è da intendersi spregiativamente, anzi indicava una precisa attività lavorativa, quella di condurre i buoi all’aratura, operazione di una certa delicatezza, che ha insistito nelle nostre colline fino a tutti gli anni Cinquanta.
E chiede, il buon Lorenzi, alle une e agli altri di sedere accanto e di dare «udienza a i miei veraci accenti». È quello che faremo anche noi, dopo 242 anni.
Aldo Ridolfi – (continua)