8 DAL GUARDARE ALL’OSSERVARE, NELLO SPAZIO E NEL TEMPO: Riscoprire “Verona città d’acqua” con gli “occhi della memoria”
…a cura di Giorgio Chelidonio
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Riscoprire “Verona città d’acqua” con gli “occhi della memoria”
Girando per le strade di Verona capita (oggi assai meno, a causa del confinamento pandemico)(1) di notare turisti intenti a fotografare targhe e “memoriali” bronzei dedicate ai miti shakespeariani, tracce romanzesche diventate “vere” al punto di sostituire, di fatto, quelle storiche di cui Verona è piena. Ne è buon esempio la doppia targa posta sulla sedicente “casa di Romeo”, la cui identificazione turistica ha avuto il risultato di far imbrattare ogni mattone della facciata con insulse smancerie che hanno irrimediabilmente sconciato (fino a quasi 2 metri di altezza) questo edificio che è realmente di età scaligera.
Tornando alle “tracce d’acqua, tutta l’area urbana ne è disseminata: fin dalle sue origini, il primo abitato protostorico, sorto sul colle e alle pendici di Castel San Pietro, era connesso ad un guado, forse inizialmente stagionale, ma che, già almeno 2150 anni fa circa, venne attrezzato con un ponte (probabilmente ligneo) per farvi transitare la via consolare Postumia.
Verona è stata “città d’acqua” fino a 130 anni fa circa, quando (a seguito dell’ennesima alluvione, quella del 1882) i nuovi “muraglioni” trasformarono il corso cittadino dell’Adige in un largo canale.
Quella che per oltre 2000 anni era stata “via d’acqua”, pullulante di commerci e di attività perifluviali come i mulini galleggianti (fig. 1) e le segherie)(2), divenne un “canalone”, inaccessibile o quasi: le scalette per scendere ai mulini(3), ciascuno collegato da un “peàgno”(4), furono troncate (salvo una in lungadige Rubele), mentre gli unici accessi al fiume rimasti (alla Giarina, al Ponte della Vittoria e la scalinata della Dogana) risultano progressivamente deturpati da decenni di mancata manutenzione(5). Rarissime le tracce dei “vò”(6), rimaste in forma di angusti vicoletti.
Fino a 100 anni fa circa, un altro aspetto del paesaggio fluviale erano le ruote idrovore: “beveràre”(7) cioè le grandi ruote fatte per innalzare l’acqua del fiume e portarla, con apposite canalizzazioni nei campi coltivati, fino a 200-300 metri dalla riva del fiume (Bismara, 2016).
Infatti, a causa della naturale permeabilità dei terreni perifluviali ghiaiosi, quei campi erano a rischio siccità. Da un documento di fine XIX secolo risulta che ce ne fossero ben 37, fra Belluno Veronese e la riva periurbana di S. Massimo-Chievo (Conati, 1999). Anche sulle rive dell’area periurbana esistevano alcune ruote: curiosando in un vecchio libro (AA.VV:, 2002) ne troviamo raffigurati alcuni esempi:
– una prima del ponte di Castelvecchio, in riva sinistra;
– due in riva destra alle “regàste”(8) di San Zeno (fig. 2);
– due in riva sinistra appena fuori alle mura di Porta San Giorgio (AA.VV., 2002; pag. 29, una stampa del 1747) (fig. 3), in corrispondenza dell’attuale Lungadige Matteotti. Una famosa “veduta”, datata al 1705 (fig. 4), ne mostra però una sola, quasi a ricordarci il grado di precarietà di queste opere idrauliche, sottoposte com’erano alle ricorrenti piene dell’Adige.
Cosa ci suggeriscono queste ultime grandi ruote? Le loro immagini paesaggistiche ci ricordano che, nei secoli XVII e XVIII, quelle zone erano orticole, coltivate, come conferma il vecchio toponimo ”Campagnola” e il retrostante “Via Prato santo” (denominazione che ricorda un’area di antica proprietà vescovile) (Rapelli, 1996).
Ma risalendo al XV secolo si scopre che era detta “Beveràra” una zona inserita nel sistema contradale veronese già alla fine del XII secolo, ma che fu inclusa nell’area urbana solo dopo la costruzione (nel 1325) delle mura di Cangrande (Bismara, 2016).
La crescente complessità socio-economica di questa contrada si può rilevare da ben 600 atti notarili stilati fra il 1408 e il 1433. Pochi anni dopo (nel 1452) la costruzione del monastero di San Bernardino sottolineò l’importanza di questa zona e implicitamente la probabile presenza di una o più ruote “beverare” (fig. 2).
Concludendo, passeggiando per i due lungadige citati potremo “vedere”, con gli occhi della memoria storica, uno scenario della “Verona città d’acqua” ormai sconosciuto a gran parte dei veronesi stessi.
Bibliografia
- VV., 2002: Bernardo Bellotto, un ritorno a Verona. L’immagine della città nel Settecento, a cura di G. Marini, Marsilio Editori, Venezia.
- Beltramini G., Donati E.,1980: Piccolo dizionario veronese-italiano, edizioni di “Vita veronese”, Linotipia Fiorini, Verona.
- Bismara C., 2016: La contrada della Beverara di Verona dal 1408 al 1433: aspetti economici e sociali, in “Studi Veronesi. Miscellanea di studi sul territorio veronese”. Vol. 1.
- Conati G., 1999: Ruote idrovore lungo il fiume Adige, dalla Chiusa a Verona, in “Annuario Storico della Valpolicella”, Centro di documentazione per la Storia della Valpolicella, pp. 287-304, Fumane (Verona).
- Rapelli G., 1996: Prontuario toponomastico del comune di Verona, Edizioni “La Grafica”, Lavagno (Verona).
Links
1) https://www.lamalcontenta.com/images/Archivio/malcontenta_editore/TESTI/1999%20marin%20sanudo%20vite%20dogi%20i.pdf > confinà è parola dialettale in uso presso i veneziani già nel XV secolo, come più volte citato ne “Le vite dei Dogi, 1423-1474”, di Marin Sanudo. Era usata nel dialetto veronese nella frase “confinà come un ràto”, riferita ad una pratica dei preti di campagna di imporre, con formule esorcistiche, alle bestie moleste un luogo dove non fare danni alle colture: si ordinava, ad esempio, ai ratti di stare in un vegro, cioè in un area incolta. I media, ormai succubi dell’anglofonia d’accatto, ci hanno imposto la parola lockdown, cioè quarantena che però avrebbe significati più restrittivi, come isolamento o quarantena.
2) Oggi ricordate dai toponimi di Via Seghe S. Tomaso e Vicoletto Seghe Sant’Eufemia
3) https://verona.com/it/verona/mulini-sulladige/ > Se ne contarono fino a 400: erano ancorati alla riva con robuste corde, come suggeriscono le pietre, ”segate” dal movimento delle stesse, dell’angolo di torre scaligera eretta sulla riva destra del Ponte Pietra.
4) Ogni mulino era collegato alla riva da uno stretto ponticello mobile di legno, che veniva allungato o accorciato a seconda della portata stagionale del fiume: questo semplice tipo di Pignolo (una traversa di Piazza Isolo), storpiato e reso incomprensibile da una toponomastica forzatamente italianizzata. In diversi vecchi dipinti e stampe, sui “peàgni” sono rappresentate figure di “facchini” dotati di straordinario equilibrio e piegati sotto il peso dei sacchi di granaglie (in arrivo) o di farina (in uscita).
5) Quello vicino al Ponte della Vittoria venne lastricato con “basoli”, verosimilmente recuperati e/o asportati da pavimentazioni della Via Postumia.
6) “Vò Sole”, una stradina vicino a Ponte Garibaldi.
7) “beveràre”, antica definizione dialettale veronese per le ruote idrovore, strumenti di irrigazione note nei paesi circum-mediterranei col nome di “norie”, nome di origine araba (https://it.wikipedia.org/wiki/Noria), ideate in Mesopotamia almeno 2000 anni fa. Il dialettale “beveràra” (forse significante, in origine, abbeveratoio) è documentato a Verona almeno dal XV secolo (Bismara, 2016); è connesso al verbo “bréar” (annaffiare, orti o piante), detto anche “bearàr” (Beltramini e Donati, 1980). Forse il più antico testo scritto in “lingua veronese” è (a dispetto del suo titolo) il “De Babilonia civitate infernali” di Giacomino da Verona, frate francescano precursore della “Commedia” dantesca. (https://www.treccani.it/magazine/strumenti/una_poesia_al_giorno/05_13_Giacomino_da_Verona.html)
8) “regàsta” identificava una “massicciata di sassi” sistemata a protezione di riva fluviale, in particolare all’imbocco di canali o rami secondari dell’Adige. Questo nome è presente in documenti del X secolo. La sua citazione negli Statuti Albertini del 1276 lascia dedurre che “carri di pietre” fossero posti alla base della regàsta (Rapelli,1996) che, perciò, potrebbe essere stata una “ròsta”. Quest’ultima parola, di origine longobarda ( https://www.treccani.it/vocabolario/rosta/ ) indicava palificazioni infisse in punti specifici dell’alveo fluviale.
Verona, 15.02.2021
Giorgio Chelidonio
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Didascalie
Fig. 1: mulini galleggianti in riva sinistra (area detta “Campagnola”) nel 1897 https://www.pinterest.it/pin/308496643208977575/
Fig. 2: Ruote “beveràre” alle regàste di San Zeno nel 1730. In primo piano pare raffigurata, forse per enfatizzare la funzione delle ruote idrovore, la roggia che queste alimentavano (AA.VV., 2002, pag. 51).
Fig. 3: La riva sinistra, presso “Prato Santo” (l’attuale lungadige Matteotti, ripreso dal Lungadige Panvinio), nei primi decenni del XX secolo, con ruota e mulini. ( https://www.pinterest.it/pin/280138039303310845/ )
Fig. 4: Veduta della riva sinistra fra la Campagnola e San Giorgio in Braida nel 1705 (AA.VV., 2002, pag.40).