8. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: I valori morali.
…a cura di Aldo Ridolfi
Per le tue domande scrivi a: aldo.ridolfi@libero.it
8. Della coltivazione de’ monti: i valori morali.
Ma ogni precettistica, ogni insegnamento tecnico, ogni indicazione pratica, ogni raccomandazione agraria viene dopo l’interiorizzazione di fondamentali visioni etiche, di sagge convinzioni, senza le quali la tecnica agraria pura e semplice potrebbe non avere successo.
Lorenzi insiste, con leggerezza, ma insiste. Raccomanda: non essere invidioso di chi possiede i campi in pianura e può ammirare generose produzioni di bionde spighe; abbi amore, contadino dei monti, «del patrio nido»; e ancora: onora Dio «che tai piagge t’ha offerte». Immagino che in cuor suo Lorenzi conoscesse bene le fatiche, le privazioni, le crisi alimentari cui gli abitanti dei monti andavano incontro e dunque s’ingegna a dare un messaggio positivo, incoraggiante.
Ma le difficoltà rimangono. Scrive Rino Macenero, riferendosi alla zona di Campodalbero, a conferma delle difficoltà dell’abitare in montagna e tentando di spiegare la ragione per la quale gli abitanti comunque vi insistevano: «Su quella china di forzata economia la brava padrona preparava la polenta con la stessa acqua adoperata per cuocere la pasta: risparmiava il sale. Come facesse a viverci una famiglia, lassù, nessuno lo sa. Quello era il nido dei padri; e bastava». Su queste colline i montanari hanno trascorso gli anni terribili delle ultime due guerre capitalizzando una fame boia. Mia madre raccontava che, lei giovanissima e con una fame che non riusciva a saziare, se alla sera allungava la mano troppo spesso verso la “panara dela polenta” giungeva puntuale e immediatamente traducibile l’occhiata di suo padre e la mano veniva subito ritirata, vuota. Ciò nonostante lì si rimaneva: «Quello era il nido dei padri; e bastava». Ma l’attaccamento alla propria terra non era in discussione, forniva comunque cibo, progettualità, fantasia, dunque dignità. L’attaccamento era un valore morale.
Lorenzi prosegue sicuro, cosciente della validità dei consigli che spargerà a piene mani nelle stanze successive e convintissimo che questa gente saprà trovare anche nella durezza quotidiana le semplici soddisfazioni che senza dubbio si merita: «Non è senza fior l’arduo sentiero». Ma solo se «di molt’arte il tuo cultor non manca». E dunque, ecco, gioire per un acquazzone dopo una lunga siccità, entusiasmarsi per la fioritura del melo, perché alla fine, si dicono il montanaro e la montanara, anche la loro terra «fertile è più che non si mostra in vista».
Il montanaro, tra i principi etici che deve fare propri, ed attenervisi con instancabile costanza, ce n’è anche un altro espresso dalla stanza XIX. Qui Lorenzi usa il linguaggio esortativo: «Duri il Villan…» dove il poeta non allude tanto allo scoraggiamento, ma si riferisce proprio al lavoro fisico, al “fare” e al fare con continuità. Non si permetta, dunque, questo montanaro di batter la fiacca perché «se le braccia e il remigar sospende / indietro torna…». Dove Lorenzi, da un lato fa uso di questo letteratissimo verbo, remigare, che indica un particolare volo degli uccelli caratterizzato da un batter d’ali lento ed eguale, mentre dall’altro lato riprende il tema del lavoro, della fatica come elementi di grande valore etico. E grosso modo tutti – o molti – quelli della mia generazione che hanno frequentato la scuola elementare negli anni Cinquanta, credo abbiano in memoria la voce della maestra che spesso, spessissimo metteva in guardia contro l’ozio, “il padre dei vizi”. Non c’erano attenuanti a questo imperativo categorico, non c’erano ricorsi psicoanalitici possibili. Senza che ce ne avvedessimo, giungeva, forte, fortissimo, il richiamo educativo. Che rimaneva lì, in attesa di diventare grandi, di potere, anche noi, entrare nel grande mondo dove il bighellonare non aveva diritto di cittadinanza.
Aldo Ridolfi – (continua)