Puntata 18 – Il romanzo della speranza.
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Puntata 18 – Il romanzo della speranza.
La fantasia più sfrenata in un racconto di viaggio, serve per evadere, e per concludere nel racconto del ritorno, che in fondo non occorreva correre tanti pericoli e che si stava meglio a casa. Del resto Ariosto aveva già portato da secoli Orlando nella luna, ma fuggire dalla realtà per proporne una possibile ma diversa, e quindi migliore, questo domandava alle idee e alla fantasia un nuovo modo di esprimersi, il coraggio di mettere in discussione ciò che crediamo vero.
E questo è possibile solo servendosi dell’umorismo, l’unica forza capace di attraversare i miti del passato e fare spazio al racconto della speranza.
Il modello di questo tipo di romanzo, si era aggiunto al modello boccacciano e circolava nel fiume ricchissimo della prosa narrativa italiana ed era la traduzione italiana dell’Utopia di Tommaso Moro, tradotta e pubblicata nello stesso anno e dallo stesso editore, il Doni di Venezia, assieme alla Storia verissima di Luciano di Samosata.
Qui dovrei aprire una lunga parentesi sulla straordinaria fortuna editoriale nella cultura veneziana di questo scrittore del tardo ellenismo, perché si deve solo alla sua lezione se la satira, l’ironia, il sarcasmo, la parodia, e la caricatura, connaturate in ogni forma di linguaggio umano, ma in funzione moraleggiante, si trasforma in forza corrosiva di ogni forma di potere, in capacità di capovolgere la realtà, dunque in un’arma pericolosa per chi la usa e per chi ne è colpito.
Tra i tanti racconti di viaggio che circolavano a Venezia, nel secondo Settecento, per ogni tipo di lettore, vi indicherò solo i principali “romanzi della speranza” e seguiremo un ordine cronologico che ci porterà fino ad oggi. Perché essi non sono scritti per i posteri, come lo è la letteratura maggiore, ma si rivolgono al maggior numero di lettori contemporanei nella lingua più corrente, sui problemi più attuali.
Per capire a che cosa vuole alludere una narrazione nella quale giocano fantasia, idee e umorismo è perciò indispensabile collegarla con la storia del suo tempo, oltre a quella del suo autore, senza dimenticare la letteratura protagonista con la quale spesso esiste un dialogo sott’inteso. E non si dimentichi lo scambio continuo, spesso determinante, con le opere della narrativa europea e con altre espressioni artistiche, come l’urbanistica, o la musica e in epoche più vicine, il cinema. Tutti campi di ricerca ancora in gran parte da esplorare.
Il livello di letterarietà che oggi chiamiamo letteratura di massa o di consumo, è oggetto di ricerche approfondite solo da una trentina d’anni in Italia, e nell’incrociarsi degli approcci più diversi, nella fretta di colmare le grandissime lacune ancora rimaste, si notano alcune zone ancora inesplorate, come la comicità per esempio. Una tematica solo da poco sdoganata dalla critica accademica, e che la recente tragica cronaca ha portato alla luce: perché ridere è una cosa seria.
Vorrei in queste mie chiacchierate comunicarvi soprattutto la gioia della scoperta, la sorpresa di ritrovare autori e opere spesso di grande valore, ma emarginate, scomparse. E indicarvi alcuni percorsi ancora da esplorare se aveste voglia di scoprire tesori nascosti.
La ripresa di studi sul Settecento italiano ed europeo ha aperto le porte della officina del romanzo con sede a Venezia, di dove usciva un genere letterario in rapida espansione anche nel resto d’Italia.
Io ci sono penetrata dall’esterno, dall’Olanda in particolare, dove allora vivevo ed insegnavo. E dove i miei studenti universitari, grandi viaggiatori e lettori appassionati di Verne o di Swift, mi avevano spiazzata chiedendomi di far loro leggere anche romanzi italiani di viaggi verso “l’isola che non c’è”: romanzi dei quali non trovavano traccia nelle storie della letteratura nemmeno nelle più recenti.
Da una prima indagine (che poi ho continuato fino ad oggi…) ho scoperto che il primo documento italiano nel quale nella cornice del viaggio si sviluppano i tratti distintivi del romanzo d’utopia, ossia fantasia, idee e umorismo, è del 1749, scritto da Zaccaria Seriman (1709-1784) ed è intitolato Viaggio alle Terre Incognite Australi ed al paese delle Scimmie. (Né quali si spiegano il carattere, i costumi, le Scienze, e la Polizia di quegli straordinari abitanti). Tradotti da un manoscritto inglese.
Gilberto Pizzamiglio, che ne ha curato per primo l’edizione moderna (Milano, Marzorati, 1977) con una ottima introduzione, adotta il titolo più breve quello di Viaggi di Enrico Wanton usato nelle edizioni successive, vere puntate di una serie, fino a quella fortunatissima in cinque volumi del 1824-26. Il che significa che per una settantina di anni c’era ancora in Italia un pubblico per questo genere di letture.
I Viaggi di Enrico Wanton non sono solo “un romanzo filosofico” su modello di quelli francesi di Voltaire, arricchito cioè da riflessioni sulla società di paesi reali veramente visitati dallo scrittore, pensiamo ad Algarotti in Russia per esempio. Si tratta invece del primo esemplare di un genere letterario con caratteristiche ben precise: c’è un viaggio per mare e l’inevitabile naufragio, i viaggiatori sono due, come dire tutti noi lettori, e si trovano nel mondo dei Cinocefali e delle Scimmie, che serve per fare la satira dell’arroganza dei ricchi verso i servi, dei poeti vacui e delle donne saccenti e letterate. Insomma lo specchio di quello veneziano in lento sfacelo, che potrebbe salvarsi solo se avesse il coraggio di guardarsi allo specchio e vedersi capovolto, col distacco dell’umorismo.
Ma ad una lettura più attenta risulta chiaro che Seriman, di origine armena, dunque straniero a Venezia, ha vissuto una esperienza che lo tocca particolarmente da vicino: quello della lingua e del rapporto tra scrittore e lettore, e ne fa il centro del suo romanzo.
Di se stesso dice “io per fine scrivo da uomo di mondo, e non da letterato (…) sarei ben degno di riso se mi applicassi allo studio delle frasi e delle parole (…). Ho scritto per narrare, non per allettare con la politezza del dire”. Dunque i due livelli di letterarietà per due pubblici diversi gli sono ben chiari, ma è soprattutto attento al problema generale, quello di una unica lingua, l’italiano, per un unico paese. Uno straniero come Seriman a Venezia, per vivere doveva imparare la lingua del posto, e anche una seconda lingua, il veneziano.
Tra il latino della tradizione e l’italiano di matrice toscana, c’era anche il francese come lingua di comunicazione in tutta Europa, benché a Venezia prevalesse il veneziano parlato e scritto. Ma nel romanzo, Enrico Wanton, uno dei viaggiatori, se vuol vivere e mangiare deve imparare la lingua cagnesca, quella dei padroni, ricchissima di suoni, di cui ci viene data la grammatica e descritti i metodi didattici che i maestri cani usavano con lo scolaro umano. Una sola lingua per tutti sembra la proposta del viaggiatore nel mondo all’incontrario.
Una ventina d’anni più tardi, l’autore più letto del tempo, Pietro Chiari (1711-1785) affronta pure lui il problema della lingua in un romanzo che ebbe tre edizioni fortunatissime (1760, ‘68, ‘87) e fin dal titolo mette in chiaro l’argomento centrale, una proposta contraria a quella di Seriman. Si tratta dell’ Uomo dell’altro mondo, o sia Memorie di un solitario senza nome, scritte da lui medesimo in due linguaggi, chinese e persiano, e pubblicato nella nostra lingua dall’abate Pietro Chiari.
Vi consiglio di leggerlo (in F. Portinari, Il romanzo del Settecento, 1988) per capire come l’attualità si rifletta nella narrativa d’intrattenimento, quella letta da tutti. Chiari è chiaramente favorevole al plurilinguismo della realtà veneziana e osserva: Un uomo solo si raddoppia e moltiplica tante volte, quante lingue egli parla. Oggi queste parole potrebbe servire come motto per una facoltà di Lingue straniere, o di Interpreti e traduttori, ma trent’anni prima della Rivoluzione francese, ci dice che a Venezia c’era già chi pensava ad un mondo ancora più grande.
Laura Schram Pighi