Puntata 21 – Ippolito Pindemonte
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Puntata 21 – Ippolito Pindemonte
Leopardi invitava ciascuno di noi a “dare al rovescio delle cose la stessa dignità che alla facciata” e Ippolito Pindemonte (1753-1828) nostro illustre concittadino, autore di un romanzo che si inserisce a pieno tra quelli di viaggi fantastici, ci serve bene per dimostrare quanto sia prezioso questo consiglio. Si tratta di Abaritte, storia verissima (1790) che potete leggere nella edizione moderna a cura di Edoardo Villa (Genova, La quercia, 1980).
Ma come, direte voi, Pindemonte, l’amico del Foscolo, il traduttore in versi dell’Odissea, scrive un viaggio immaginario? …già e l’Odissea non racconta forse un viaggio?
Il nobile veronese vissuto al tramonto della Repubblica di San Marco, tra prepotenze francesi e conservatorismo austriaco, è uno di quei letterati che sono definiti dalle Storie della letteratura come “gli amici di…”: fu amico e corrispondente dell’Alfieri, del Foscolo, del Monti, del Cesarotti e di quant’altri in quel cambio di secolo nell’area culturale veneta e lombarda si dedicavano alla letteratura. Sembrerebbe una eterna “spalla”, un illustre secondo di bordo, un innocuo erudito che brilla di luce riflessa: strano però che dei tipi difficili come Alfieri, o Foscolo, lo ritenessero un loro maestro di poesia e di vita.
Ricco di famiglia, dolcissimo di carattere, era di casa nei salotti della nobiltà internazionale e veneziana, parlava e scriveva in tre lingue europee, amava il latino e in particolare il greco al punto di tradurre l’Odissea, aveva iniziato anche un poema sui Sepolcri, idea che gli venne scippata dal Foscolo, che in compenso gli dedicò il suo primo poema.
Questo è il profilo tradizionale di Ippolito Pindemonte, prototipo della cultura neoclassica di fine Settecento, e insieme poeta sensibile al primo romanticismo: così lo dipingono due ampie biografie una di un amico intimo nel 1834, e l’altra in due volumi di Nicola Cimmino nel 1968.
Quest’ultimo definisce il romanzo Abaritte come una “prova del tutto infelice” scritto da Pindemonte a trent’anni, al ritorno da un viaggio per l’Europa durato tre anni per rimettersi in salute. Il romanzo era stato pubblicato con data e luogo falsi, e l’autore aveva lasciato detto di distruggerlo assieme a tutte le lettere spedite ogni giorno alla sorella. Appena leggibile il Saggio di prose e poesie campestri (1785), tutto il resto, diari di viaggio, dissertazioni, due favole per due bambine, roba in prosa, non conta. Il vero Pindemonte è solo il poeta, il famoso traduttore dal greco.
Eppure il romanzo contiene pagine di intensa emozione perché Abaritte, l’eroe del racconto, è un principe persiano che insegue per tutta Europa il suo amore per una donna misteriosa e insieme una patria che ancora non ha. E questo cercherà il Pindemonte, grande viaggiatore lui stesso, con Vittorio Alfieri a Parigi nei giorni del terrore ambedue disgustati dalla violenza della rivoluzione.
Pindemonte non troverà un modello per il suo paese ideale: la Francia troppo rivoluzionaria, la Prussia troppo militaresca. Solo l’Inghilterra con la sua democrazia e libertà, potrà servire da esempio per una Italia unita, ancora solo immaginata.
Nessuno dei critici motiva il giudizio tanto negativo sul romanzo, e nessuno si chiede perché un nobiluomo veneto, di trent’anni, pieno di soldi, famoso nel suo ambiente e persino alla corte di Vienna come indiavolato ballerino, che era sopravvissuto a undici rovinosi incidenti di carrozza per eccesso di velocità per le viuzze di Verona, viaggi per tre anni di fila dal 1788 al 1791, con le comodità di quei tempi, il tutto per “rimettersi in salute” dopo una gioventù dissipata.
E poi perché Ippolito scrive ogni giorno alla sorella e non al fratello, noto autore teatrale, e tiene diari minutissimi annotando ogni incontro, e poi trasforma tutta quella esperienza in un romanzo pieno di allusioni alla politica italiana, e ordina per testamento di bruciare tutto? Chi e che cosa voleva nascondere il Pindemonte, di chi aveva paura, e perché tornato a Verona, diventa tanto metodico e scrive ogni suo spostamento come se qualcuno lo controllasse?
Abaritte, storia verissima, poteva essere la chiave di lettura per trovare la risposta a tanti dubbi, e farmi scoprire un altro Pindemonte, quello che le biografie “complete” ci vogliono nascondere.
Non sono stata la sola a pormi tante domande alla lettura del romanzo definito “filosofico”per non dire inutile. Un paio di altri ricercatori, segugi infaticabili, hanno scavato negli archivi della Biblioteca Civica che conserva ogni carta del Pindemonte, per concludere che di chiaro su di lui si sa solo una cosa: che aveva un fratello ed una sorella. Dei quali però i biografi quasi non parlano.
I tre ragazzi Pindemonte, Ippolito, Giovanni ed Elisa, formavano una bella squadra, legatissimi tra loro per tutta la vita, e anche con i genitori, gente interessante, ricchi di censo e di cultura. Insomma una di quelle famiglie dell’alta borghesia terriera o mercantile come ce n’erano tante nella Repubblica di San Marco, gente che si laureava a Padova o Bologna, lavorava sodo, viaggiava per l’Europa, dove poteva contare su una rete di amici spesso potenti, ma era esclusa da ogni carica politica nella Serenissima, perché non apparteneva alle cento famiglie dogali, quelle del “libro d’oro”. Ecco come una oligarchia con mille anni di potere politico ed economico, nell’illusione di conservarsi, si chiude a riccio e così per omertà protegge la corruzione, e decreta la propria fine.
A fine Settecento, la Serenissima è un meraviglioso guscio vuoto, che continua a rifiutare le forze nuove ben vive nel suo entroterra, come per esempio i Pindemonte. A meno che uno, Giovanni, non sposi la figlia di una famiglia dogale.
Giovanni è buon poeta, colto, ambizioso, investe gran parte delle ingenti sostanze famigliari in un matrimonio prestigioso che gli apre le porte delle cariche politiche di periferia, tanto da diventare governatore di Vicenza. Ma è soprattutto autore di grande successo a teatro, e si serve del più efficace mezzo di diffusione delle idee del suo tempo, per denunciare la corruzione dei politici di San Marco, mettendo in scena un fatto di cronaca, la ribellione di una regione del suo impero in Medio Oriente. Il pubblico gli decreta un successo strepitoso, perché capisce l’antifona e l’invito a fare altrettanto. Ma il potere non sottovaluta il pericolo, così Giovanni finisce in carcere ai Piombi, la famiglia va quasi in rovina sostenendo un processo che costa una fortuna. Ippolito riesce a tirar fuori dai guai il fratello, ma deve lui stesso cambiar aria e andare in giro per l’Europa (altro che malferma salute!) per poter riannodare una rete di amicizie tra intellettuali europei, in maggioranza massoni, che accoglieranno più tardi anche Giovanni.
La sorella Elisa se ne va anche lei all’estero, a Piacenza, sposa un gentiluomo patriota e si lega al mondo milanese: Napoleone aveva fatto di Milano la sua capitale e la città accoglieva esuli politici da ogni parte d’Italia, tra loro molti intellettuali, giornalisti, artisti, musicisti. Elisa partecipava così al dramma famigliare, aprendo un salotto letterario dove si rifugiò anche il fratello Giovanni che debutterà più tardi nella vita politica della Repubblica Cisalpina a Milano. In questo ambiente arrivavano le lettere quotidiane di Ippolito, ed ecco perché l’autore di Abaritte pregherà la sorella di distruggerle, cosa che per nostra fortuna, lei non ha fatto.
Non ci stupisce che Venezia prima e l’Austria dopo Campoformio, al ritorno del Pindemonte nel 1791, metta alle sue costole una spia che lo descrive come un noiosissimo e metodico letterato, pendolare tra la messa quotidiana a Verona, e la visita al salotto letterario in villa dagli amici Mosconi a Nòvare in Valpolicella dove incontrerà il Foscolo. E che la critica ci tramandi la maschera di un letterato “inutile”, e non del vero Pindemonte quello che Foscolo chiamerà il suo maestro, quello che traspare bene da Abaritte, storia verissima.
Ippolito al ritorno dai tre anni di viaggio per l’Europa, non si allontanerà più da Verona, e rinuncerà addirittura a sposarsi per non coinvolgere altre persone nel dramma che è suo, come della sua famiglia, così come lo è della sua patria.
Laura Schram Pighi