Andreoli Vittorino – “Omeni done e buteleti”
…a cura di Elisa Zoppei
Per le tue domande scrivi a >>> elisa.zoppei@gmail.com
In occasione dell’importante evento “Soave città del libro e della cultura 2017”, svoltosi dal 6 al 9 aprile scorso, su indicazione di Graziano Cobelli, sono stata invitata dagli organizzatori a intrattenere il prof. Vittorino Andreoli sul suo ultimo libro scritto in dialetto veronese, Omeni, done e buteleti, (Ed. il Segno dei Gabrielli), in programma per la serata di sabato 8 aprile. Non vi nascondo di aver avuto non poca apprensione nel prepararmi all’incontro, perché temevo di non essere in grado di dialogare con disinvoltura e il necessario acume di spirito con un personaggio del tal calibro, un noto psichiatra veronese, la cui fama non ha confini. Ma leggendo il suo libro l’ho visto sotto una luce diversa, quella di un uomo semplice e schietto che ha voluto rappresentare nel modo più diretto e naturale la vita della gente contadina conosciuta nella sua infanzia e portata dentro di sé come un valore da salvare. La serata si è svolta all’insegna di risate a gola aperta, suscitate dalla lettura interpretata di alcune pagine a cura di due attori del Teatro Prova, che hanno dato davvero “prova” di bravura e di comicità. Una serata divertentissima con un Vittorino Andreoli gustosissimo, un vero conquistatore dotato di un fascino speciale, un trascinatore di folle. E anch’io ho fatto la mia parte. Mi Credete?
Brevi note biografiche generali
Nato a Verona il 19 aprile 1940, il prof. Vittorino Andreoli, figlio di un muratore, il quale per la sua tenace volontà riuscì con le scuole serali a prendere il diploma di “capomastro edile”, che gli permise di creare l’impresa Andreoli Luigi, e partecipare così alla ricostruzione della nostra città distrutta dalla guerra. La mamma apparteneva a una famiglia contadina e instancabile lavoratrice, si dedicò indefessamente alla cura della casa e della famiglia. Vittorino, secondo di tre fratelli si diplomò prima come geometra per compiacere il padre, ma poi seguendo la propria vocazione di curare le persone con disturbi mentali, riuscì nel 1966 a laurearsi in medicina con specializzazione in psichiatria. Noi sappiamo che è stato un innovativo direttore del Dipartimento di Psichiatria di Verona – Soave, ma è anche membro della New York Academy of Sciences. Si è dedicato anima e corpo ai malati di mente, chiamandoli “i miei matti”, scrivendo a loro vantaggio moltissime opere di livello. Tra le sue ultime pubblicate in BUR: Le nostre paure (2011), Elogio dell’errore (2012, con Giancarlo Provasi), Il denaro in testa (2012). Con Rizzoli ha pubblicato decine di saggi. Tra gli ultimi compare L’educazione (im)possibile (2014). I suoi libri spaziano dalla medicina, alla letteratura, alla poesia, e collabora con la rivista Mente e Cervello e con il giornale Avvenire Atma. Per l’emittente Sat 2000 ha realizzato alcune serie di programmi, della durata di circa 30 minuti, dedicati agli adolescenti (Adolescente TVB), alle persone anziane (W i nonni) e alla famiglia (Una sfida chiamata famiglia). Nell’ultima delle sue opere pubblicata da Rizzoli nel 2016, La gioia di vivere. A piccoli passi verso la saggezza, suggerisce la cura per superare la generale fatica di vivere dei nostri giorni, passando da una visione del mondo infelice a un’altra più leggera e positiva.
Per note biografiche dettagliate rimando al Sito ufficiale di Vittorino Andreoli www.vittorinoandreoli.it, dove ha scritto con dovizia di particolari l’avventura umana e professionale della sua vita.
Vorrei solo aggiungere che la sua vasta cultura di medico psichiatra, testimoniata dalle innumerevoli pubblicazioni di carattere scientifico, è indubbiamente avvalorata da una profonda umanissima cultura del cuore: un cuore che prima di ogni altra cosa sa accogliere e ascoltare con sorridente attenzione empatica ogni persona che ha bisogno di essere capita e aiutata a stare meglio.
“Omeni done e buteleti” nasce da un radicato sentimento d’amore dell’autore verso il dialetto veronese che ritiene lo strumento della sua comprensione quotidiana e il vocabolario della sua storia.
Nel primo risvolto di copertina viene sottolineata la passione dell’autore per la scrittura. Anche i suoi trattati o saggi di medicina psichiatrica sono in sostanza pagine di alta letteratura e per di più all’altezza della nostra comprensione umana.
Se il titolo indica i variegati personaggi che popolano il libro, il sottotitolo “Frammenti di vita” ci fa entrare nella vita appunto della gente contadina, còlta nella più autentica e spontanea naturalitá del quotidiano vivere di uomini donne e bambini a contatto con le piccole e grandi cose del loro mondo, fatto di lavoro nei campi e nella stalla, di serate passate al lume della lucerna a contarsela, o da l’osto davanti a un bicchier di vino, in attesa di andare a letto e consumare sotto le coperte l’unico piacere concesso ai pori cani: mostrarghe a la so dona el gran valor de l‘afaron de l’omo; e per la donna tegnerse da conto el so omo, dandoghe la so sodisfassion. In questa carnalità conclusiva della loro giornata di fatica, consiste l’amore coniugale di Bepi e Maria, i due principali protagonisti, che arrivano all’atto finale attraverso una sorta di corteggiamento ruspante dove lei la tira di lungo, stando al secchiaio a lavar zo rammendando calseti e mudandoni e intanto lui si infervora, ma che, al dunque, sono pronti tutti e due a donarsi pienamente l’uno all’altro fino a farsi reciprocamente sposi felici. A questo riguardo Vittorino Andreoli nella sua prefazione osserva che la sessualità nel mondo contadino di allora occupava l’ottanta per cento della dinamica mentale e il resto venti era dedicato al Padre Eterno e ai Santi patroni perché provvedessero a far pioer quel che ocor e a far allontanare la tempesta, riportandoci al nostro ricordo ancora vivo che quando stava arrivando un temporale de quei bruti, si bruciava qualche ramo di olivo benedetto recitando «A fulgure et tempestate libera nos domine».
Vorrei fare un particolare apprezzamento alla dedica che l’Autore volge ai grandi che prima di lui hanno trattato la stessa materia attraverso l’uso della lingua materna (come Jan Amos Komenschý, Comenio (1592 1670), ha definito ogni dialetto appreso in famiglia): dopo ad Angelo Beolco detto il Ruzante, a Carlo Goldoni e a Berto Barabarani, c’è una « a…» seguita dai puntini, dove possiamo aggiungere anche un Dino Coltro, un Tolo da Re, un Gianpaolo Feriani, solo per dire i nostri, ma anche tanti altri che hanno cantato a vele poetiche spiegate la vita legata alla terra e al mondo degli umili.
Il libro è un lungo racconto tradotto in dialoghi serrati, saporosi e spassosamente umoristici, distribuiti in 26 quadretti, ognuno dei quali è uno squarcio della vita di quel tempo, concretizzata in quei valori comportamentali che ormai appartengono all’archeologia delle voci perdute (pref. dell’autore).
Nel primo di essi è la nonna Virginia che istigata dal nipotino Nona, me còntito… col suo personale dialettare, snocciola fatti giornalieri, costumi di vita, aneddoti spiritosi e commoventi, imprimendoceli nella memoria. Ci riporta il profumo della polenta quotidiana, da fare nel stagnà, quel essere grati quando c’era un tochetin de renga da magnar con la polenta, o polenta e un gosso de late de la vaca Mora. La polenta l’era tuto, primo e secondo, l’era na benedission, na medessina che paraa fora tuti i malani, persino i vermi se te la magnai calda e molesina.
E aggiunge: “Ricórdate che ghe sarà tanti magnari, ma gnente lè piassè della polenta e del late…
Insomma se c’era la polenta era salva la vita. Ce ne siamo completamente dimenticati. Come ci siamo dimenticati che allora la gente se godea con gnente: bastava el torototela a portare novità e allegria in la corte; o el moleta cha gussàa i cortei; o quando capitàa el caregar ch’el stupàa i busi de la carega, che la deventàa nova e i buteleti i sognàa da grandi de far el caregar; o quando rivava el paroloto che l’era gran festa par le teiéte che te le portai a casa nove.
E via discorrendo. Ma la storia più rubiconda di risate è quella del nonno che quando tornava a notte alta a casa con un bicchiere in più, aveva la smania de far l’omo inamorà. Qui si apre il sipario su un teatrino senza quinte, dove Bepi, pronto alla battaglia d’amore, mette fieramente in mostra i suoi attributi maschili come un glorioso trofeo, e la Maria sta al gioco, sperando solo che si addormenti in fretta parchè se no el ciapa fredo.
Leggere questo libro ci fa calare, anche visivamente, nelle atmosfere dei vecchi filò contadini dove le storie si susseguivano alle storie, raccontate con quella colorita parlata dialettale che Andreoli ha saputo riprodurre fedelmente chiamando le cose con il loro nome, ritraendo, caratteri, mentalità, costumi, abitudini, mettendoli in scena, facendoli tornare a vivere, regalandoci tante sane risate.
E se è vero l’aforisma di Nicolas de Champfort (Nicolas Sebastian Roch,1740-1794), secondo il quale «La giornata più perduta è quella in cui non si è riso», vi invito cari amici a leggere ogni giorno una pagina che vi farà ridere davvero di gusto e non perderete la vostra giornata in qualsiasi modo vadano le cose.
Buona lettura e belle risate! vs.Elisa