L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/2

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA

Giovedì 21 giugno 1917

(…continuazione)

Alcide rimase alcuni attimi in silenzio, come se stesse digerendo lentamente una a una le parole appena ascoltate. «Mio nonno mi diceva spesso che un uomo, un maschio, in vita sua deve sempre obbedire in silenzio a quel che gli dicono gli altri. Da piccolo i suoi genitori, da vecchio i suoi figli…»
«E di mezzo? Quando è adulto?»
Il Ferretti guardò sorridente il prete seduto accanto e poi sussurrò ammiccando furbetto: «Quando si è grandi, noi uomini dobbiamo obbedire alle nostre mogli! Questo mi diceva il nonno ridendo di gran gusto!»
«Allora non è cosa per me, caro mio» lo rimbeccò don Primo con un sorriso. «Noi preti non abbiamo né mogli, né figli, perciò…»
«Già, ma Avete Dio! Cos’è, potete forse mettervi a discutere con il Padreterno, quando vi ordina nel cuore di far qualcosa? Potete forse dirgli ”no”, questo proprio non m’interessa, non mi piace e non lo faccio?»
Il sacerdote sospirò con una mezza smorfia, strinse le labbra per reprimere la risata che gli stava nascendo in pancia e sbottò: «E hai ragione pure tu, Alcide! Qui abbiamo tutti dei padroni… re, imperatori, generali e colonnelli, sergenti e primari d’ospedale, figli e mogli… Però te lo assicuro: è difficile, anzi, è praticamente impossibile che Dio sbagli un ordine, e che ti chieda di fare qualcosa che tu non sarai mai in grado di fare…»
«Cos’è, monsignore, volete convincermi a diventar prete? Lasciamo almeno che la guerra finisca, poi magari ci posso fare un pensierino…»
Il silenzio di parole scese nell’ambulanza, lasciando spazio al rombo del motore da più di quattromila centimetri cubici che spingeva il camioncino alla folle velocità massima di quaranta chilometri all’ora, giù per la strada bianca che stava per entrare in Brescia.
«Venti minuti al massimo e siamo in stazione, Eminenza» urlò l’autista aggrappato al grande volante dell’auto. Erano le sue prime parole, praticamente, da quando avevano lasciato Storo tre ore prima.
«Ma che eminenza» rispose un po’ stizzito don Primo. Stiamo attenti alle proporzioni, va bene? Io sono un semplice cappellano militare…»
«Sì, ma col grado di tenente, però» lo interruppe Alcide continuando a guardare fuori dal finestrino.
«Vabbè, e voi un tenente lo chiamate Eminenza? Onorevole? Eccellenza?»
«Ma no don Primo, è solo una questione di deferenza, di cortesia, di buona educazione insomma… Voi siete un sacerdote, un sacerdote di guerra. È vero, ma pur sempre un pastore di anime, questo ci ha detto il nostro parroco di Storo…»
Era inutile mettersi a discutere con quelle anime semplici. Non avrebbero mai capito che lui, nato quarant’anni esatti prima a Lazzate, nel milanese, allo scoppio della guerra nel 1915, quand’era coadiuvante nel paese di Asso, aveva risposto alla lettera di precetto che lo convocava alla ferma come soldato semplice, ma la cartolina gli era stata strappata davanti agli occhi e l’avevano gentilmente rispedito ad Asso perché la legge dispensava dalla guerra i sacerdoti in cura d’anime. Ma lui no: lui allora s’era arruolato volontario ed era stato assegnato all’infermeria di Bergamo come cappellano militare degli alpini. La sua era stata, almeno all’inizio, una visione un po’ romantica del servizio pastorale al fronte; s’immaginava soldati da confessare nel buio delle trincee, messe celebrate tra il fumo delle granate e dei gas, croci baciate prima dell’attacco, croci arrossate di sangue al rientro al di qua della linea, tutto nel nome di una patria da difendere a ogni costo come un bene prezioso, al quale nemmeno un sacerdote poteva e doveva sottrarsi… Quasi come una pena del contrappasso, a quel prete volonteroso di rendersi utile per il bene dell’anima di tanti soldati pronti per l’ennesima battaglia, era stato invece assegnato un compito di assistenza in seconda linea: prima a Bergamo, poi a Brescia e, infine, nell’ottobre del 1915, a Storo. “Finalmente andrà in un paese al fronte”. Lui, nell’ospedaletto militare di Storo, gli assalti alla baionetta, le bombe incendiarie, le granate, le mitraglie e i cannoni li poteva valutare solo dalle gambe spezzate, dai corpi lacerati, dalle ferite orrende e dalle malattie, le polmoniti, le peritoniti, le dissenterie, che giungevano di quando in quando a bordo di ambulanze identiche a quella Fiat 15 ter che lo stava portando a Brescia, oppure ammassate sui cassoni dei camioncini scoperti o, talvolta, perfino su carri da fieno.

Ilario Péraro – (2 continua)

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