L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/4

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA

Giovedì 21 giugno 1917

(…continuazione)

«Comunque non sta bene far aspettare così un cappellano militare» insistette il giovane. «E poi cos’ha questo colonnello più del tenente medico che comanda l’Ospedaletto di Storo e che la rispetta, la saluta segnandosi il berretto e di certo, quando ha bisogno di parlarle, non la fa aspettare per ore nella sua anticamera!»
«Sta’ tranquillo, Alcide… E poi dovrei esser io quello che si lamenta! Se mi vedi sereno, sta’ sereno pure tu, ché il sangue cattivo fa male alla salute…»
«Allora quel toro maledetto doveva averne a ettolitri di sangue cattivo, orco giuda… Mi scusi don Primo, mi scusi, non volevo…»
Alcide non seppe mai come avrebbe reagito don Primo alla sua imprecazione involontaria perché, appena aperta la bocca per rispondere, il sacerdote venne zittito dal rumore della porta che si apriva e dalla voce squillante di un giovane furiere con le dita sporche di inchiostro: «Il colonnello adesso la può ricevere» disse il ragazzetto in divisa grigioverde, che s’era dimenticato di fare il saluto al tenente con la croce rossa sul petto. «Mi segua…»
Don Primo si alzò e s’alzo anche Alcide.
«No, tu rimani qui, aspetti là seduto!» disse il furiere.
«Io, il mio cappellano, non lo lascio andare da solo in nessun luogo!» esclamò Alcide arrossendo di rabbia.
Il giovane in divisa lo squadrò, fece una smorfia e si tolse il moschetto di spalla.
«Stiamo calmi, né?» s’intromise don Discacciati facendo un passo verso il soldatino. «Metti via il moschetto…»
«Ma io eseguo gli ordini del colonnello Tomasi!»
«E noi non vogliamo mettere te nei guai, vero Alcide? Il ragazzo diceva così per dire, perché sta interpretando meglio che può il compito che gli è stato affidato a Storo: essermi accanto e aiutarmi in ogni circostanza, questo gli hanno ordinato. Adesso però siamo tutti al sicuro in questo forte, quindi Alcide può rilassarsi, sedersi di nuovo e aspettarmi qui. D’accordo?»
Alcide provò a cercare qualche altra scusa per far valere le sue ragioni, ma alla fine dovette arrendersi: lasciò cadere le spalle, piegò le ginocchia, si chinò in avanti, allungò un braccio sotto le gambe della seggiola alle sue spalle, se la avvicinò e vi si lasciò cadere sopra, facendo scricchiolare lo schienale. Se doveva proprio restar lì ad aspettare il suo cappellano, l’avrebbe fatto piantato al centro dello stanzino, in modo che tutti quelli che fossero passati di lì avrebbero dovuto far peripezie per superarlo, Alcide era fatto così!

Per lui parlavano gli occhi. Anzi, urlavano terrificanti!
Il colonnello Icaro Tomasi non si alzò, quando don Primo venne fatto entrare nel suo ufficio. Sollevò appena lo sguardo, per tornare subito sulle carte che stava leggendo e siglando, non smise di fumare il sigaro incastrato a lato della bocca e non gli fece alcun cenno: «Si segga!» ordinò soltanto, con una voce che sembrava un raglio d’asino.
Don Primo vide solo una seggiola libera, nella stanza: se aveva intenzione di sedersi doveva farlo solo lì, sulla seggiola appoggiata alla parete accanto alla porta d’ingresso: invece la prese, la spostò più vicina alla scrivania e poi si sedette.
Il colonnello sbirciò di sottecchi e non condivise, ma non disse nulla. Sbuffò, gettò la penna sul piano della scrivania, diede un paio di tiri al sigaro e fece cadere la cenere su un piattino.
Il sacerdote s’accorse solo allora di quel paio d’occhi che lo stavano scrutando: due bottoni d’acciaio, gelidi come il grigio di un ghiacciaio, due chiodi, due raggi diabolici che ti osservano, ti penetrano, ti perforano il cervello e il cuore fino alle budella. Due occhi che saettavano da sotto a un paio di sopraccigli cisposi e neri come fossero disegnati col carbone, mentre il resto del volto era una maschera arcigna, seria, cattiva e indisponente. Metteva veramente paura.
Era un uomo di statura media, il colonnello Tomasi, un cinquantenne magro come un mulo da fatica, nervoso per come muoveva de dita e le mani, passandole e ripassandole in continuazione tra i capelli scuri, riccioluti e unti di brillantina.

Ilario Péraro – (4 continua)

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