L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/7

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

Per le tue domande scrivi a: ilarioperaro@yahoo.it

Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA

Giovedì 21 giugno 1917

(…continuazione)

VENEZIANI GRAN SIGNORI – PADOVANI GRAN DOTTORI …

La minuscola cella puzzava, mamma mia come puzzava: aperta la porta, furono investiti da una zaffata che sapeva di escrementi e di urina misti a odor di umidità e di terra marcia. Don Primo portò troppo tardi la mano al naso per tapparselo, il soldatino fece due passi indietro impallidendo, mentre il solo Alcide chinò il capo ed entrò nel bugigattolo scavata nella roccia del monte e rivestito di cemento grigio sporco. Era abituato, lui, a Storo, a entrare nella stalla di famiglia a ogni ora del giorno e della notte e quel po’ di odore non gli faceva certo impressione.
La stanza, tre metri per due, non aveva altre fonti di luce che la finestrella del porticino di legno rinforzato: un pagliericcio sulla sinistra, uno sgabello a tre gambe rovesciato in un angolo, un secchio arrugginito per i bisogni corporali appena dentro, sulla destra. In fondo, nella penombra di quell’andito scuro e maleodorante, il cappellano vide un giovane seduto a terra con la schiena appoggiata alla parete. Era completamente nudo, con la testa appoggiata alle ginocchia mentre le braccia circondavano le gambe: tremava, scosso dal freddo e dalla febbre. La mano destra era avvolta da uno straccio che un tempo doveva esser stato bianco, candido e pulito, mentre adesso era macchiato di fango e di sangue rappreso.
«Accenda la luce» ordinò il sacerdote al fante di guardia, che prese dal taschino della giacca un fiammifero e accese un lumino appeso alla parete. «Alcide, per favore, va’ a cercare un secchio d’acqua pulita e alcuni stracci. Prima di cominciare abbiamo un bel po’ di lavoro da fare, noi due.»
Non fu facile convincere don Sergio ad alzarsi in piedi, ma quando ci riuscirono il piccolo prete soldato cominciò a dondolare la testa e mormorare sottovoce una nenia incomprensibile.
Alcide lo lavò con cura, parlandogli con dolcezza e facendo attenzione a non toccargli la mano destra. «Adesso stia fermo, don Sergio, che le lavo la schiena… Sì, lo so: l’acqua calda sarebbe meglio, ma ho trovato solo questa… Ecco, adesso mi scusi, ma devo pulirla anche qui… stia buono, mi raccomando: faccio piano, non si preoccupi… ecco, fatto… Adesso infiliamo i vestiti…»
Don Primo teneva in mano i pantaloni, le calze e una lurida camicia che erano stati gettati in un angolo della prigione. Quando don Sergio fu rivestito, Alcide prese il secchio degli escrementi e gli stracci sporchi e li portò fuori per gettarli al di là del fossato del forte. Don Primo fece sedere il prigioniero sul pagliericcio e gli si mise accanto prendendogli la mano sinistra. Solo a quel punto il Babbolin alzò un po’ la voce e la nenia divenne finalmente comprensibile in un crescendo di volume che pareva interminabile…
          – Venessiani gran signori
            Padovani gran dotori
            Visentini magna gati
            Veronesi tuti mati
            Udinesi castelani
            coi cognomi de Furlani
            Trevisani pan e tripe
            Rovigoti baco e pipe
Adesso urlava, con voce fessa e stridula
          – i Cremaschi fa i coioni
            I Bresan taia cantoni
            ghe n’è ancora de pì tristi…
            Bergamaschi brusacristi
            E Belun? Pòre Belun
            Te se proprio de nesun!…
Aveva i capelli scuri rasati quasi a zero, ma erano stati tagliati male, a vedere le cicatrici coperte di sangue secco; il volto era magro e con la barba lunga e scura, un labbro rotto per chissà quale sventura, la pelle del torace era tirata sulle costole, che si contavano una a una, e rovinata dai graffi, mentre sulle caviglie nere di fango secco brillavano i segni dei morsi delle pantegane che dovevano farla da padrone nel forte, specie di notte.
– E lui riprese infaticabile:
             Venessiani gran signori
             Padovani gran dotori
             Visentini magna gati
             Veronesi tuti mati
             Udinesi castelani…
«Sssshhhh! » intervenne a quel punto don Primo, stringendo la mano dell’altro. E Sergio Babbolin rispose stringendo a sua volta la mano di quello sconosciuto, ma la strinse così forte che il cappellano dovette balzare in piedi e divincolarsi a forza per evitare che le dita si stritolassero.
          – I Venesiani i xe gran signori par tuto: par el mar, par i palassi, par i ducati, par le gondoe,                  par la seta, par le ciese piene de altari, par le done bele e par quele brute ma piene de schei              che le se sposa anca sensa sentimento…

Ilario Péraro – (7 continua)

↓