Pubblicazione del volume: “Annuario storico zenoniano XXVI-2019” di Giancarlo Volpato… segnalazione a cura di Aldo Ridolfi… – 59

…a cura di Aldo Ridolfi

Annuario storico zenoniano XXVI-2019

Per una lettura dell’”Annuario storico zenoniano”, vol. XXVI-2019

Ognuno di noi, nei libri che sceglie o che gli capita di leggere, cerca cose diverse. Non necessariamente le stesse per cui quei libri sono stati scritti. Non so se quest’ultimo possa essere considerato un peccato, ma, se lo è, è un peccato veniale.
È con questo spirito che mi inoltro nelle 484 pagine del XXVI numero, anno 2019, dell’ “Annuario storico zenoniano”, curato dal professor Giancarlo Volpato e uscito nel mese di maggio per i tipi de La Grafica editrice di Vago di Lavagno.
Allora, su questa strada – accanto all’estrema nitidezza dei diciassette contributi sulla cui levatura nemmeno voglio esprimermi vista la distanza che mi separa – mi piace cercare, nel volume che mi accingo a presentare, alcuni denominatori comuni che soggiacciono a tutti quei testi e che costituiscono l’ossatura del lavoro a più mani, ma ancor più consentono di sganciare, per qualche istante, il livello scientifico e documentaristico per consegnare il volume al piano dell’humanitas intesa come partecipazione alle espressioni umane nella loro totalità e quindi consentendo una fruibilità diffusa del volume. Ciò non a scapito – quasi fosse un tradimento – del dato tecnico volume, ma per svelarne l’anima più intima e più antropologicamente autentica.
Il misterioso scorrere del tempo, ad esempio, il suo procedere irreversibile, il suo carattere di contenitore e ordinatore degli umani accadimenti, è topos ineliminabile, ovunque e sempre, ed esso compare puntuale, puntualissimo. Infatti ecco che, appena aperto il volume, in alcune pagine a mo’ di presentazione, il curatore mi fornisce un qualificato incoraggiamento a proseguire. Egli infatti parla di «un mondo di memorie», della possibilità, per il visitatore, di rivivere «secoli di storia» e di risentire «le voci del tempo», e immagina che quel visitatore abbia «palpitato, forse anche pregato». E allora, subito dopo, Lorenzo Saraceno, introducendoci in sottili e affascinanti questioni linguistiche attorno a “cripta” e “catacomba”, ci assicura che il tempo interviene sulla semantica, sommuovendo così visioni diverse del mondo, e costringendoci ad andare a ritroso, e su questa strada rintracciare il senso degli eventi. Egli parla di «ruolo evocativo» delle parole delle quali sono sempre «possibili implicazioni simboliche». Si appropria della macchina del tempo anche Dario Cervato. Impegnato a descrivere la traslazione delle reliquie zenoniane, prende il 21 maggio dell’807 e lo proietta nel 2005 costruendo così un solido ponte tra secoli lontanissimi. La forza e la costanza con cui i parametri temporali vengono ribaditi è forse una delle carte che abbiamo ancora in mano per non spezzare la comunicazione tra generazioni. La dinamica raccontata da Cervato ha la sua valenza universalistica proprio lì. E vedo confermata questa idea della comunicazione intergenerazionale anche in conclusione dell’articolo di Giuliano Sala che si occupa dei protagonisti della traslazione zenoniana. Egli, in sede di conclusione, annota, con la semplicità con cui si parla a tavola, che «il culto dei santi Benigno e Caro è ben vivo… come poté osservarsi nei festeggiamenti accorsi in onore dei due nel corso del 2007 a 1200 anni dalla traslazione del corpo di San Zeno». A 1200 anni! Ogni commento è superfluo. E Maristella Vecchiato non avrebbe potuto raccontare “La sistemazione dell’abside della cripta” senza far ricorso a quelle date che, poste all’inizio del testo, ne costituiscono una specie di perimetro, la cornice entro la quale avvengono tutti i movimenti raccontati: 1451, 1838, 1889, 1937.
Pensare di poter prescindere dal tempo non è possibile. Mai.
Anche Silvia Musetti, per descrivere le decorazioni delle arcate della cripta, si confronta con il tempo. E corre ben indietro: da Bernardo di Chiaravalle e da Ugo da San Vittore (sec. XII) giù a cercare Isidoro di Siviglia (sec. VI-VII), Plinio il Vecchio (sec. I) e la Genesi. Questo spingersi lontano, questo cercare supporti nei secoli passati, contribuisce a fare della storia non solo un fatto gnoseologico ma ontologizza ciò che non c’è più. E basta la prima pagina del saggio di Fabrizio Pietropoli – impegnato a raccontare la decorazione pittorica della cripta di san Zeno – per riflettere sulla centralità della basilica come «ruolo privilegiato a raccogliere testimonianze della memoria locale.» Il costante richiamo al tempo, leitmotiv di tutto il volume, ci libera felicemente, grazie a Dio, dalla piatta dimensione di un invadente presente cui mi pare di essere troppo spesso condannato. Ma l’invadente presente cui mi riferisco non è certo quello raccontato da Giovanni Villani. Se egli inizia il suo racconto nel 1957 – praticamente ieri, al cospetto dei tempi basilicali – ha l’accortezza di far precedere un rapido ma illuminante collegamento con gli albori della musica sacra. E così mette le tessere del mosaico al posto giusto.
E se di denominatori comuni vogliamo ancora parlare, mi accorgo che, accanto al tempo, è lo spazio a rivestire un’importanza straordinaria, a possedere un’efficacia unica. Tutti gli autori sono impegnati a costruire un reticolo spaziale senza il quale il rischio dell’intellettualismo diventa incombente. E dunque Luca Fabbri inanella cripte su cripte insegnandoci il confronto, la diversità e la consonanza, consentendoci un immobile viaggio che va dal Duomo di Cologna Veneta alla chiesa di San Pietro a Bovolone a San Salvaro a Legnago e poi Aquileia, Auxerre e Falvigny. E il territorio diventa il luogo delle relazioni. La trama geografica delle cripte fornisce un dato antropologico, una riflessione teologica.
E infine ci sono gli “oggetti” piccoli o grandi che siano, dal coro ligneo del Correr alla lampada votiva. Oggetti che noi intercettiamo e che da essi siamo intercettati. Quelli che affollano la nostra quotidianità minima e quelli che ineriscono alle opere secolari. Gli oggetti possiedono un ruolo – meglio un valore – pratico ma possiedono anche la forza di rinviare a significati simbolici. Ragionando di cripte, il volume conduce anche agli “oggetti”. A me fa particolarmente piacere che Anita Masiero rilevi che sul retro degli scanni siano visibili i «segni irregolari degli utensili impiegati quali sega, pialla e sgrossino». E gli interventi e gli spostamenti che la studiosa descrive forniscono un’“anima” (mi sia concesso) al coro sottraendolo al semplice statuto di “cosa”. Non diversamente Gianna Gaudini coglie una prospettiva simile a quella qui accennata quando, a conclusione del suo saggio, così si esprime: il coro di San Zeno esibisce «ancora oggi la sua gloriosa ed eroica presenza»: gloriosa ed eroica, appunto, che sono attributi in primis riservati agli umani. E la stessa «lampada che arde è qualcosa che vive, che vibra, che non lascia nel silenzio», suggerisce Volpato: il salto dalla base materiale (olio e metallo) al mondo simbolico e spirituale cui forse apparteniamo davvero, è realizzato. Anche Flavio Pachera – nel cui saggio coro e cripta e mura sono soppesati, controllati radiografati, misurati in ogni aspetto e còlti, dunque, nella loro fisica natura di oggetti solidi, compatti, concreti – propone un’esuberanza documentale che diventa testimone di un amore che con le “cose” nulla ha da spartire. Instaura invece un canale comunicativo alla ricerca di ciò che è sorgivo, di ciò che pertiene alle origini. Per mantenergli il diritto di cittadinanza. Per non scialacquare eredità millennarie.
E quando i contributi sono così specialistici e specifici (Francesca Amati, Vittorio Rioda, Enrico Maria Guzzo) da non lasciare scampo a chi, come chi scrive, è costantemente alla ricerca dell’universale, ebbene proprio allora questi riceve la più seria e serena lezione: le basi materiali non vanno mai sottovalutate, costituiscono una conditio sine qua non per qualsiasi altra considerazione.
Quanto possa essere complicato e delicato il lavoro contenuto in queste 484 pagine ce lo dice, tra le righe, quasi utilizzando gli spazi bianchi, sottovoce, ma formulando una precisa procedura metodologica, Fabio Coden a p. 419: «Il cammino a ritroso» egli ci afferma «è subordinato alla lettura delle fonti, alla paziente valutazione…, alla proiezione di minimi indizi archeologici in più articolati schemi» e il tutto «con ogni cautela». Talvolta «non resta che procedere per ipotesi che sono destinate a rimanere un esercizio speculativo, ancorché utile per sollecitare ulteriori vie di ricerca». I condizionali che seguono confermano le difficoltà, ma stiamo parlando – detta senza mediazioni – di “sassi” posti o spostati all’epoca carolingia o, bene che vada, nei secoli XI e XII! E allora i condizionali diventano perle.
Completano l’opera gli affascinanti e meticolosi “Indici analitici” curati da Giuseppe Franco Viviani. Gli indici, è chiaro, sono strumenti di lavoro essenziali, razionali, ma non sono privi di un loro singolare fascino: si peschi, a caso, tra i nomi geografici: Pescantina-Pescara-Peschiera del Garda-Piacenza: accostamenti che non possono non mettere in moto fantasia, curiosità, relazioni. E infine uno sguardo all’apporto fornito dall’iconografia che – come ebbe a dire il Curatore in sede di Presentazione in sala Zanotto – non solo valorizza, sul versante editoriale, il volume, ma soprattutto rende intelligibili i testi, confermando come l’apparato paratestuale sia parametro da non ignorare mai.

Aldo Ridolfi

↓