Zangrandi Domenico
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Pittore, scultore e anche musicista nacque a Quinzano Veronese l’8 giugno 1928. Ebbe una vita artistica che si può dividere in due aspetti: il primo, quello giovanile, legato alle espressioni surrealistiche ed innovatrici dell’immediato secondo dopoguerra e quello della maturità, dove più largamente s’inseriscono la matrice religiosa e la sua apertura sociale.
Allievo dell’Accademia “Cignaroli” dove ebbe maestri Antonio Nardi, Nurdio Trentini ed Egidio Girelli, s’affermò ben presto come giovane di talento e di sicure promesse. Espose, giovanissimo (1947-1948), in due personali e fu chiamato a partecipare a collettive in città ed altri luoghi veneti stringendo amicizie con autori affermati, compositori musicali, uomini di teatro e di cinema che popolavano la Verona feconda di quegli anni. Compose una delicata Marcia funebre per la morte di una sorella e realizzò alcune tele di chiaro stampo surrealista dechirichiano che amò immensamente per tutta la vita e che reputò sempre tra le sue cose migliori.
Poi, si eclissò; sparì per quasi un decennio abbandonando la pittura e la musica; più tardi, scrisse: “Un tempo fui gallo cantore/di vita e di piaceri./Incurante se ciò fosse bene o male/godetti in assoluta libertà/delle gioie che mi offrirono e/da quella coppa giovanile,/(ancora molto acerba) /bevvi tutto il nettare/fino alla consumazione./M’illusi d’essere quercia ben piantata/finché il fato/scosse come un uragano/le bionde fronde/e, in un sol colpo l’abbatté./L’urto fu tremendo/e la parata non fu facile!/A lungo chiesi il perché di tanta violenza/e a quale scopo…/Ma un giorno tutto mi si rivelò/e capii che quello/fu un ennesimo avvertimento:/poiché Colui che governa/intendeva farmi cambiar vita./Così volle e accettai./Deposte cresta e fronde,/per castigare tanto cinico ardore,/mi pose in un pollaio e lì, solo/mi lasciò a meditare sul mio passato”.
Riprese agl’inizi degli anni Sessanta con una lena rinnovata, con la fiducia di un altro, profondo spirito, quello religioso che lo accompagnò e lo sorresse per tutto il resto dei suoi giorni; dismessa la vecchia figura del “bohémien”, iniziò un’altra vita e furono anni d’intense soddisfazioni artistiche; realizzò una Via Crucis per la chiesa cimiteriale di Quinzano Veronese, preparò il bozzetto e i disegni per il Monumento ai caduti (un trittico da eseguirsi in mosaico) nella medesima frazione (dov’egli abitò sempre) che fu inaugurato nel 1968, eseguì un’altra Via Crucis per l’ospedale di Bussolengo, fece i cartoni per una scultura in ferro battuto dell’Istituto tecnico “M. Minghetti” a Legnago.
Nacquero in quegli anni le sue sculture, i suoi bronzi, si cimentò nella grafica con chiare e pregevoli puntesecche, acqueforti, disegni a sanguigna. Le sue realizzazioni, legate al sacro, lo portarono a preparare crocefissi in bronzo per i Musei Vaticani, per le suore calasanziane di Firenze, una vetrata per la cappella del Cenacolo di Santa Maria degli Angeli ad Assisi, per la Missione cattolica di Quito in Ecuador, dei quadri per la chiesa di Teresina in Brasile.
Predilesse, fino ad allora, la figura che propose in forme spesso tendenti al “grandioso”, dilatate, fatte di geometrie solide e piane, sovente intrise di dolore e di pesanti gravezze: su tutte aleggiano una “pietas” ed una “charitas” di umanità profonda. Ma non dimenticò i paesaggi, anche per i suoi reiterati soggiorni parigini (dove divenne sodale di Raoul Follerau, l’amico dei lebbrosi) e le amate coste bretoni, che riprodusse in tele di straordinario cromatismo. Riscoprì l’anatomia animale che rappresentò – a volte – in modo crudo.
Ma Zangrandi non abbandonò mai quella lunga e sterminata teoria di quadri grandi e piccoli dove sono allineati – a volte con esiti di notevole bellezza – madri e mogli, amanti e figli, contadini, lavoratori, Adami ed Eve, lottatori, pettinatrici, lavandaie, modelle, ciclisti nello sforzo supremo, nudi maschili e femminili aggressivi, violenti ma di una sensualità casta e purificata. Dominano su tutti i torturati, i crocefissi, i prigionieri, i fucilati, le vittime innocenti, i flagellati dal dubbio, dal morbo, dalla miseria, dallo sconcerto a volte con sottolineature lancinanti e crudeli mai velleitarie e snobistiche: alla sofferenza delle sue figure, il pittore assommava la sua, compartecipe e dolorosa, sovente visibile nelle opere. Non dimenticò, tuttavia, (e ciò dipendeva soprattutto dai suoi momenti di serenità) delle figure dolcissime, dei volti femminili, in particolare – ma non solo – di delicata bellezza.
Alternò stasi emotive a periodi di quieta ed apparente, ma solo sopita, ricreazione interiore; sempre, però, le opere risentirono dei suoi abbandoni poetici e contemplativi pieni di tormento dove, al suo socialismo cristiano, allegò un francescanesimo purissimo riproponendo il Santo d’Assisi in molte tele di insistita postulazione (ed un bronzetto di perfezione assoluta con le braccia alzate al cielo), adorata dal profondo dello spirito e ricondotta a schemi scarni ed essenziali, geometrici: a volte, invece, in moduli o contrasti eminentemente plastici di toccante e commossa liricità.
Traspose sulle tele, rifletté nei bronzi (La mela: due grandi braccia, una di Adamo, una di Eva, che si porgono il frutto; un Toro pronto per l’arena e molti altri) la sua partecipe esistenza permeata di un senso profondo della vita, della fragile umanità ch’egli provava su se stesso: dal suo sorriso, straordinariamente traboccante di apparente felicità e di arguzia, traspariva un’esistenza poetica che contrastava con alcune forme puramente esteriori di chi non sapeva cogliere la non sempre rasserenante forma del suo vivere.
Faceva parte della Società delle Belle Arti veronese; il suo nome era piuttosto conosciuto anche al di fuori della provincia dove, più volte, era andato ad esporre. Nel 1984 fu ricevuto da papa Giovanni Paolo II cui regalò un Crocifisso in bronzo, ora nei Musei Vaticani; nel 2004, la vedova, Nerea Marcanti, donò a papa Francesco S. Francesco e il lebbroso, una splendida tela del 1984, ora nella casa di Santa Marta, abitazione del Pontefice: in essa l’artista Zangrandi aveva raffigurato molto di se stesso.
Lasciò anche delle composizioni musicali, alcune di grande dolcezza melodica che amava profondamente e che pochi conoscevano. Durante l’ultimo periodo della sua vita, pure malfermo in salute, sembrò ritornare ad una ricerca nuova della forma e del colore.
Furono moltissime le mostre a cui partecipò, anche se preferiva le personali a quelle collettive dove, certamente, poteva meglio esprimere se stesso e le proprie qualità; la più grande – personale e retrospettiva – sembrò un omaggio alla sua esistenza di artista: nella splendida sala della Gran Guardia in Verona, Zangrandi radunò le opere che reputò le sue migliori: era il 1996 e fu un tributo che la città gli concesse. Fu l’ultima, poiché egli scomparve il 21 febbraio 1999.
Solo nel 2009 sue opere ritornarono ad una mostra postuma e, nel decennio della sua dipartita, a Parona gli fu dedicata la sala civica; più tardi, la sua figura d’artista riapparve in qualche mostra, sia personale sia collettiva: una interessante – ma non unica – fu quella di Mantova; ora, finalmente, pare che il suo straordinario Monumento ai caduti in mosaico di Quinzano – malauguratamente lasciato andare in disordine e divelto dalla sua posizione centrale – sia in restauro.
Case private, musei, conventi, chiese posseggono sue tele, suoi bronzi, sua grafica.
Bibliografia: Zangrandi, Verona, Fiorini, 1976; Renzo Chiarelli-Giancarlo Volpato, Zangrandi, Verona, Fiorini, 1980; Donato Conenna, Zangrandi, Arona (No), Editel, 1993; Giorgio Cortenova-Giancarlo Volpato-Alberto Piazzi, Mostra antologica di Domenico Zangrandi, Verona, [s.n], 1996; Giancarlo Volpato, Zangrandi Domenico, in Dizionario biografico dei Veronesi (secolo XX), a cura di G. F. Viviani, Verona 2006, pp. 887-888; Raffaello Corsi-Giorgio Carli, Domenico Zangrandi: a dieci anni dalla morte (1999-2009) cenni sulla vita e sulle opere del pittore di Quinzano, Quinzano (Vr), Comitato di San Rocco, 2009; Giancarlo Volpato, Dipingo i sorrisi e le lacrime della vita: Domenico Zangrandi, uomo e artista, Verona, Comitato celebrazioni San Zeno, 2015.
Giancarlo Volpato