Puntata 46 – CAMPI D’ENERGIA UTOPICA: “LA POTENZA DEL RISO: Alcuni esempi di comicità letteraria. Ridere con le forme: Giuseppe Arcimboldo (1526-1593)”
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46 – Ridere con le forme: Giuseppe Arcimboldo (1526-1593)
La mia frequentazione così intensa e prolungata con “l’ultimo Arlecchino di Francia” e con la sua Colombina, mi hanno insegnato quanto la parola recitata non possa essere disgiunta da quella figurata o da quella musicata specialmente quando si intende comunicare un messaggio umoristico.
Da sempre il teatro di parole si è giovato di figure, danze e suoni per allietare il pubblico ma nella commedia dell’arte la comicità è funzionale allo spettacolo e il sincretismo tra le tre arti è determinante. Pensiamo al ruolo di Arlecchino per esempio e alle sue infinite variazioni arrivate fino ad oggi assieme ad altri ruoli ridicoli, come il vecchio avaro o il dottore vanaglorioso, o il soldato fanfarone.
L’arte di far ridere, portata in giro per l’Europa dai comici dell’arte italiani, eredi del teatro classico, all’inizio del Seicento, viene assunta come modello anche dalle arti figurative e della musica con un effetto di moltiplicazione.
Il massimo rappresentante italiano di questo “ordinato scompiglio” come lo ricorda Carlo Ossola nel suo Autunno del Rinascimento (Firenze, Olschki, 1971) libro di fondamentale importanza per orientarsi nei tre secoli del Rinascimento italiano, è un pittore lombardo Giuseppe Arcimboldo (1526-1593) che lavorò per gran parte della sua vita a Praga come coreografo e regista delle feste di corte, ammiratissimo e pagatissimo dall’imperatore Massimilano II d’Asburgo. Uomo di buona cultura letteraria, nato a Milano, vi ritornò qualche anno prima di morire ed ebbe modo di essere ancora attivo nel cenacolo culturale lombardo, erede della lezione di Leonardo.
Arcimboldo pensava che solo l’immaginazione potesse salvare la memoria di un mondo crollato in frantumi quando (questa era la percezione del tempo) tutto ciò che prima si credeva vero aveva perso il suo senso, e dominava la pazzia più totale e un diffuso senso di angoscia. Chiesa e religione, latino e lingue moderne: dove stava la verità? Colombo aveva da poco scoperto un nuovo mondo, Galilei un nuovo cielo, Tommaso Moro insegnava come arrivare in un mondo che non c’è, mentre Luciano di Samosata suggeriva di capovolgere quello dove ora si vive: i suoi Dilettevoli dialoghi, le vere narrazioni, le facete epistole furono volgarizzati da Nicolò da Lonigo ed edite a Venezia nel 1535 e poi ancora nel ’41, nel ’43, e nel ’51 e fu uno dei libri più letti del secolo.
Le uniche realtà sicure, immutabili, erano dunque la nascita, la morte, e la natura: quella non muore mai, solo si trasforma senza mai finire, il resto è tutto da ridere. Per questo Ulisse Aldrovandi (1522-1605) naturalista bolognese, inviò a proprie spese una spedizione in Estremo Oriente per documentare con disegni e oggetti una natura allora sconosciuta prima che scomparisse. La sala nella Biblioteca universitaria di Bologna che raccoglie le sue collezioni ne mostra testimonianze impressionanti.
L’ultima opera di Arcimboldo poco prima di morire nel 1593 fu il ritratto composto da fiori e da frutta, di Rodolfo II, in veste di Vertunno, il dio etrusco della natura che si rinnova eternamente, ricordato da Ovidio nelle Metamorfosi.
Laura Schram Pighi – (46 continua)