Pubblicazione del libro – “BEATRICE CENCI”… di Silveria Gonzato Passarelli… segnalazione a cura di Giuseppe Corrà… 65
…a cura di Giuseppe Corrà
VERONA
BEATRICE CENCI Roma, 6 febbraio 1577 – Roma 11 settembre 1599, (Terzo libro delle Figlie di Eva) Ed. Bonaccorso (VR), di Silveria Gonzato Passarelli
Silveria Gonzato Passarelli, veronese di nascita, laureata in lingue, ha lavorato fino alla pensione in qualità di insegnante di sostegno nella scuola secondaria di primo grado dell’Istituto comprensivo di San Martino Buon Albergo (VR) portando anche in questo ambiente di vita e di educazione la propria verve e la propria capacità di sorridere sulle realtà quotidiane. È sposata ormai da tempo con Giuseppe Passarelli, uomo del Sud, più precisamente di Tricarico, paese della Basilicata, emigrato con al seguito la famosa valigia di cartone legata con lo spago, come hanno fatto con lui anche tanti altri Italiani. Oggi i coniugi hanno due figli e sono nonni felici.
Silveria è pittrice, poetessa ed autrice conosciuta di commedie dialettali in versi e in prosa in cui spesso “rivisita” opere classiche. Con queste sue opere, all’apparenza un po’ bizzarre e dissacratorie, Silveria è riuscita a portare all’attenzione dei ragazzi di scuola, ma non solo, il mondo della letteratura classica in maniera divertente ed accattivante favorendo anche un avvicinamento ai grandi autori classici.
Sempre in lingua veneta Silveria ha depositato alla Siae una cinquantina di commedie che vengono spesso proposte in molti teatri anche dalla compagnia “I dialettanti” messa in piedi dalla stessa autrice che in essa svolge anche il ruolo di regista.
Molte ancora sono le sue produzioni poetiche sempre in lingua veneta raccolte sotto alcuni titoli, in cui è la vita di ogni giorno a farla da protagonista in quadretti che, mentre strappano un sorriso, mai cattivo, fanno meditare sul nostro modo di essere e di agire. “Castigat ridendo mores”, direbbero di lei i latini.
Un discorso a parte meritano due sue raccolte di poesie, questa volta in lingua italiana, dove, nella prima, Silveria presta le parole al proprio marito, Giuseppe Passarelli, per parlare del paese dov’è nato e da dove è emigrato più di cinquant’anni fa puntando verso il Nord d’Italia alla ricerca di miglior fortuna. È questo un libro in cui si avverte in maniera forte la nostalgia per la terra natale che rimane al fondo dell’anima del protagonista tornato a rivederla e che fa anche un bilancio della propria esistenza realizzata lontano dal paese di origine, dalle sue tradizioni e consuetudini. La seconda raccolta, rivisita e corregge con senso critico la storia del Risorgimento italiano legata alla conquista del Sud d’Italia da parte dello stato Sabaudo e alla violenza messa in atto contro i cosiddetti “briganti”. È questa una storia italiana riscritta dalla parte di quelli che il Verga chiamerebbe icasticamente “I vinti”. Ma, in fin dei conti, chi erano i veri “briganti” in questa vicenda?
Proseguendo ad analizzare il tema della violenza, Silveria è giunta anche a trattare quella perpetrata nei confronti delle donne, ad esse l’autrice ha dedicato tre opere, una trilogia interessante di cui, il libro qui presentato, è l’atto conclusivo. Tutte le opere di Silveria sono state pubblicate finora dall’editore Bonacorso (VR).
Un’ultima cosa rimane da di dire ancora: Silveria è un’autrice poliedrica che vale proprio la pena di incontrare e di conoscere perché leggere ed amare le sue opere non è mai tempo perso. Anzi…
Per la Festa della donna, appena celebrata sommessamente a causa della presenza del coronavirus Covid-19, è arrivata in libreria, sempre edita da Bonaccorso, l’opera in versi di Silveria Gonzato Passarelli con cui l’autrice conclude la trilogia de “Le figlie di Eva” dedicata alla donne vittime di femminicidio.
Dopo il poemetto del 2014 che rievocava la figura della veronese Isolina Canuti, massacrata, fatta a pezzi e gettata nell’Adige nel gennaio del 1900 dall’amante aristocratico militare rimasto, poi, bellamente impunito, la seconda opera del 2015 aveva come protagonista Isabella Morra, poetessa petrarchesca di metà 1500, nata a Favale (odierna Valsinni in provincia di Matera), trucidata a soli 26 anni dai propri fratelli con l’accusa di infangare l’onore della famiglia.
È di questi giorni, invece, il poemetto “Beatrice Cenci” che narra la tragedia della bellissima nobildonna romana vissuta dal 1577 al 1599, violentata e segregata dal padre e condannata alla decapitazione per volontà del pontefice Clemente VIII per aver tramato l’uccisione del genitore.
Queste riproposte con forza ed efficacia da Silveria sono storie di donne che non solo hanno amato, ma hanno anche saputo e voluto amare, contro le convenzioni ipocrite e la cultura opprimente e dominante dell’epoca. “Storie – scrive Luciana Marconcini nella prefazione dell’ultima opera – di un’attualità drammaticamente presente anche nell’odierna società dove, nonostante l’acquisita consapevolezza della dignità della donna, sopravvive ancora una strisciante e sotterranea discriminazione e la violenza sulle donne si perpetra fino ad arrivare ai terribili femminicidi che la cronaca nera porta spesso, troppo spesso, alla ribalta”.
Quello che nell’opera “Betrice Cenci” Silveria ci presenta è il dramma di una bella e giovane ragazza schiacciata dalla volontà paterna e fatta vivere in modo atroce. “Prigioniera – sottolinea lo storico Marco Pasa – non solo di una forma di possesso paterno, che non ammette realtà diverse, ma di un mondo che non accetta alternative al proprio conformismo e costretta a ricorrere a vie estreme per affermare la propria personalità. Quando, però, la vittima sacrificale si ribella alla sua situazione per realizzare, almeno in parte, la propria personale individualità, viene condannata, senza possibilità di appello alcuno, alla pena capitale da un popolo assetato non solo di sangue ma anche e più ancora del proprio conformismo e accecato dall’amore per il quieto vivere. Tutto questo in un’opera in cui Silveria riesce a raggiungere spesso le delicate forme dell’alta poesia”.
Trenta sono i canti che formano l’opera, intervallati da versi che si ripetono come voce di un coro greco che lega fra loro i vari momenti della rievocazione drammatica ed introdotti da preziosi stornelli romani ripescati dal passato. “In questi canti, – evidenzia Lucia Cametti – con una coinvolgente rarità linguistica e rigorosità metrica, versi teneri, in forte contrasto con la violenza della realtà, Silveria inserisce la parabola del male in due costanti richiami: la Roma papalina, imperiale, sgretolata dall’incuria dell’uomo, viziata da omertà e perversione, sommersa dal male e la Rocca di Petrella (dove si consuma la tragedia, ndr), oggi in provincia di Rieti e allora appartenente al Regno di Napoli.
Il popolo romano sapeva, anche se non parlava. Tacevano le voci pure sulla sodomia del conte Cenci. Beatrice sua figlia appare ancora oggi nel fruscio degli aghi di pini ombrosi, nel dolce respiro dei gelsomini e vive la sua sofferta prigionia. Il conte Cenci si muove come padre-padrone, sempre alla ricerca di altri amori, sconvolgendo la vita e l’interiorità della propria figlia”.
Fino a quando Beatrice tenta la ribellione che la porterà al patibolo senza che a suo favore venga avanzata ed accolta nessuna attenuante, sia pur quelle generiche che l’avrebbero, almeno, potuta salvare dal patibolo e dalla morte violenta in piazza come spettacolo atroce capace di sconsigliare qualsiasi ribellione all’autorità costituita, anche se opprimente e disumana.
Un libro ben scritto e di grande attualità quello di Silveria Gonzato Passarelli che vale la pena di leggere ed anche di meditare, anche perché l’argomento di cui parla è di stretta e drammatica realtà ed attualità.
Giuseppe Corrà