L’Alpino: “CRISTO CON GLI ALPINI don Carlo Gnocchi”… – 32.1

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Brano tratto dal libro:

CRISTO CON GLI ALPINI
don Carlo Gnocchi

Chiesetta sul Don

Chiesetta sul Don

Ai primi di febbraio, spezzato combattendo l’accerchiamento delle armate russe, gli alpini riapparivano, dopo un mese di marce e di lotta, nelle linee tedesche: macilenti, febbricitanti e trasfigurati, come di chi approda da un mondo lontano e dimenticato alla riva della libertà e della vita.
Chiudo gli occhi memori e rivedo, sul candore fisso e sterminato della steppa invernale, la scia tortuosa di quel doloroso calvario, segnato dalla macchia scura del sangue e dei corpi abbattuti nella stanchezza brutale, irrigiditi dal gelo, caduti in combattimento, col cuore anelante alla Patria e gli occhi pallidamente inseguenti la colonna dei compagni che si dilungava verso l’orizzonte lontano e contrastato.
Vedo il punto d’arrivo: Shebekino sospeso in un’atmosfera di miracolo e rivedo con angoscia il punto di partenza: la mia chiesetta di Dolshik; piccola nave di legno nuovo, ancorata alle falde della balka e seguita da una frotta di povere isbe in devoto corteo.
Avevo voluto che la costruissero tutta e soltanto i russi, sul disegno di un sergente alpino; perché fosse chiaro simbolo di un popolo che si ricostruiva con le sue mani la chiesa, che per opera di pochi dissennati aveva abbattuta. E vi avevano faticato intorno per tutto dicembre, nel freddo vetrato di quelle giornate implacabilmente serene e già tanto fatali per gli italiani in Russia, con quel misurato e assorto, quasi majestatico, che hanno i russi di lavorare e che ha tutta la cadenza di un rito; trascinandosi dalla lontana foresta i tronchi abbattuti e spianandoli con l’accetta, pazientemente, silenziosamente.
Non mancò neppure il campanile, sotto il cielo basso e stinto della steppa e della campanella tremula e volonterosa. L’avevano recata come un personaggio di riguardo, su di una slitta scortata da gravi contadini, dalla piazza del paese vicino dove aveva servito, per molti anni, a guidare coi suoi rintocchi affannati le slitte sperdute nella tormenta (Guai a perdere la strada nella steppa, durante la bufera!). Ora avrebbe dovuto guidare le anime verso Iddio, dopo venticinque anni di disorientamento e di deserto spirituale.
Il giorno dell’inaugurazione, la chiesetta si colmò per tempo di un popolo denso, in paziente silenziosa attesa della Messa. Primo, dinanzi a tutti, il maestro d’ascia, con la sua faccia sentenziosa e il lungo grembiule di pelle, fiero e compreso del lavoro compiuto. Per tutta la celebrazione della Messa, mi accompagnò un brusio sordo e compatto di preghiera, rotti soltanto da qualche colpo di tosse o dal pianto represso da qualche bimbo annoiato e infreddolito; ma appena la cerimonia fu terminata, si fece largo, tra il consenso della folla, un vecchio dalla barba biblica e, tratto di sotto il misero pastrano imbottito un vecchio libro di preghiera (da quanti anni lo teneva gelosamente nascosto?) si schiarì la gola e suggerì sottovoce l’intonazione di un canto.
Timido ed incerto dapprima, per la lunga desuetudine e poi sempre più caldo e sicuro il sordo brusio si sciolse lentamente in una canzone, in una nenia che era ad un tempo gemito, preghiera e pianto. E infatti molti di quei vecchi piangevano per davvero, con occhi chiari e miti, segnandosi continuamente all’ortodossa con le dita raccolte a mucchietto. (Mentre i giovani, rimasti al fondo della chiesa, guardavano senza interesse quella scena troppo nuova per loro e si scambiavano occhiate di ambiguo richiamo…).
Quando finalmente, baciata la terra, l’assemblea si sciolse, il canto continuò e si sparse in cento rivoli per le strade del paese e nelle isbe infagottate di neve, spandendo per l’aria un sentimento di festosità quasi pasquale.
Per poco, purtroppo. Dopo qualche giorno, venne l’ordine del ripiegamento.
La sera stessa avrei voluto, e forse dovuto, far incendiare la Chiesetta, come si faceva di tutti i magazzini e di ogni abitazione che avesse potuto servire al nemico; ma non ne ebbi il coraggio. Così che oggi posso pensare a quell’umile Chiesetta di legno, costruita con tanto amore paziente dai russi, come ad una piccola arca superstite sulla marea montante, o come ad un sasso saldamente piantato nel vivo della corrente. Pietra angolare per la ricostruzione di domani.

Ilario Péraro – (continua)

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