9. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “derli da tera” e “derli da foia”
…a cura di Aldo Ridolfi
Per le tue domande scrivi a: aldo.ridolfi@libero.it
9. Della coltivazione de’ monti: “derli da tera” e “derli da foia”.
C’è, nel piccolo paese di Selva di Progno, una particolare “sagra”, quella del “derlo”. Si tiene all’inizio del mese di Ottobre, quando le ombre lunghe dell’autunno accorciano visibilmente le giornate. Ché la Valle d’Illasi, partita ampia e maestosa a Caldiero, và viepiù restringendosi fino a terminare a Giazza, dove le incombenti montagne sembrano impedire il passo.
A Selva di Progno si danno convegno gli ultimi costruttore di “derli”, intrecciati oggi per il gusto di collezionisti e non più per uso lavorativo. Una visitina (alla prossima occasione, coronavirus permettendo) a Selva può fornire belle immagini e buone informazioni.
Ma che c’entra tutto questo con l’abate Lorenzi?
C’entra, perché alla strofe XXII l’abate racconta che là dove ruota di carro non può arrivare e dove nemmeno il paziente bue trova un sentiero adatto, ebbene là il montanaro deve trasportare la terra con il “derlo”: «chi le spalle / grava di terra entro viminei cesti». Già, perché in collina, tutto tende a rotolare verso il basso e nei brevi appezzamenti zappativi, con il contributo della forza di gravità e delle piogge, la terra scivolava inesorabilmente verso il basso, impoverendo il terreno a monte. Era anche questa un’operazione invernale da effettuarsi, a seconda della pendenza dei terreni, ogni due, tre o anche più anni. Il contadino riempiva di terra il “derlo” in basso e la portava in alto. Quando il trasporto era completato, sotto la “marogna” superiore si potevano vedere file ordinate di mucchi di terra fatti a cono, come tanti giganteschi dossi di talpa, a rimpolpare il magro terreno. Così li vede Lorenzi: «Che stieno i mucchi l’un presso l’altro uguali». Così li vedevamo noi fino a metà degli anni Cinquanta. Poi non si sono più visti.
Nella stanza VIII Lorenzi fa riferimento ad un altro fenomeno. Nel tardo autunno e per la prima parte dell’inverno – Lorenzi indica il mese di dicembre – è possibile raccoglie in diversi luoghi le foglie accumulate dal vento in angoli particolari. Ebbene queste foglie siano portate nelle stalle per farne lettiera agli animali: «Letto novello de le stalle immonde».
Quanto vi è in Lorenzi che è proseguito fino alla metà del Novecento! «Letto novello», lui scrive e noi si diceva: «Far leto alle bestie», stendere cioè quelle foglie raccolte, morbide e asciutte, nella stalla, precisamente nell’“andio”, per procurare agli animali un ambiente più sano e piacevole. Le foglie andavano raccolte dove ce n’erano molte e comode da rastrellarsi, per esempio sotto i “maronari”. Papà e zii, qualche volta i nonni (la famiglia era diffusamente patriarcale), verso le quattro pomeridiane partivano, si recavano nel bosco e tornavano con le ultime luci della breve giornata invernale. Noi bambini accompagnavamo per imparare facendo. Il trasporto delle foglie poteva essere fatto con un lenzuolo, ma anche con un capiente “derlo” riempito al massimo.
Ancora il “derlo”, dunque. Ma tra i due “derli” c’è una differenza: il primo veniva definito “derlo da tera” il secondo “derlo da foja”. La loro struttura era identica ma variavano le dimensioni: contenute nel primo caso ché la terra pesa, ben più ampie nel secondo ché le foglie secche, come è evidente, gravano pochissimo sulle spalle del portatore.
Caro abate, come ci capiamo, come mi sembra che siamo coetanei noi due, non separati da oltre due secoli!
Aldo Ridolfi – (continua)