Giorno del Ricordo 2021… da una testimonianza autentica di un’esule istriana… Contributo di Giuseppe Corrà – 14
9 Febbraio 2021 / 14 Febbraio 2030
…a cura di Graziano M. Cobelli
Giorno del Ricordo, da una testimonianza autentica di un’esule istriana.
Ci sono tornata nella mia Rovigno
Ci sono tornata nella mia casa di Rovigno sul mare, nella mia Istria piena di sole. Ci sono tornata, solo quasi da adulta, dopo tanti anni di assenza. Un viaggio il mio intrapreso assieme alla nonna, senza la mamma ed il papà, che ancora non “si fidavano” perché i tempi non erano maturi.
Ma per noi non si prevedevano difficoltà e andammo, forse con molta incoscienza, ma anche con curiosità e con un grosso groppo di pianto in gola.
Non sapevo chi avrei incontrato nella mia casa di Rovigno in faccia al mare quel giorno in cui ho bussato alla sua porta. L’avevo abbandonata tanti anni prima quella casa della mia infanzia. Ma il suo ricordo era rimasto nel fondo della mia anima, del mio cuore con un’immagine indelebile.
Di anni ne avevo quanti le dita di una mano, solo cinque, quando avevo dovuto andarmene via insieme alla mamma che si sforzava di guardare dritto davanti a sé, ma che conosceva solo di nome la meta da raggiungere. Andavamo via senza sapere dove ci saremo fermate, dove avremo cercato di mettere nuove radici in una terra che non conoscevamo, tra gente estranea. Purché fosse Italia, per restare italiane come eravamo nate, come eravamo da secoli…
Ricordo che era una mattina di febbraio con il freddo pungente e la mamma, prima di uscire di casa, aveva approfittato di quella circostanza per coprirmi a strati. Mi aveva fatto indossare quanti più vestiti poteva, uno sopra l’altro. L’aveva fatto, certo, per ripararmi dal freddo, ma anche per portarli via con noi quegli indumenti che, altrimenti, avremmo dovuto lasciare per non caricarci di troppo peso, oltre al poco che ci era permesso.
Per strada abbiamo camminato senza scambiarci una parola mentre raggiungevamo la stazione ferroviaria. Non c’era niente da dire. Nulla andava detto perché orecchi indiscreti potevano ascoltarci, magari tradirci. Ci accompagnava solo la paura ed il silenzio freddo.
Ricordo che abbiamo viaggiato per tanto tempo in treno in mezzo al baccano infernale prodotto dalle ruote di un misero vagone merci fornito solo di balle di fieno pensate come sedili e letti per la notte, quasi fossimo degli animali da trasportare verso il loro oscuro destino.
C’era freddo in quella carrozza in cui l’aria gelida dell’inverno filtrava senza nessuna fatica tra le assi sconnesse delle pareti. Silenzio, buio, paura e tanto freddo.
La mamma, la rivedo ancora, cercava di tappare alla meglio quelle fessure con la paglia per proteggermi dall’inverno pungente. Ma io non volevo che chiudesse tutti gli spiragli che mi permettevano di guardare la campagna triste che correva via in senso opposto alla nostra direzione di marcia priva di una meta.
Puzzava di suo quel nostro vagone usato per il trasporto delle merci, forse anche del bestiame. E puzzava anche per causa nostra, una decina di persone e di bambini io sola, lì rinchiusi. Sì, rinchiusi perché, quando l’ultimo di noi era salito sul treno, abbiamo sentito la porta che veniva sprangata dall’esterno. E in quel carro merci siamo rimasti serrati per più giorni e più notti, anche con i nostri bisogni corporali da soddisfare proprio lì, rannicchiati in un angolo. Fino a quando non ci siamo fermati alla Stazione di Verona Santa Lucia e, al nostro picchiare sulle pareti del carro merci, ci ha aperto un ferroviere esclamando: «Santa Madona, gh’è cristiani chi rento.
«Che bisogno c’era di chiuderci dentro – si era a lungo domandata la mamma senza mai ottenere risposta – dal momento che avevamo chiesto noi di poter andar via?».
Sempre la mamma mi ha raccontato più volte che, durante quell’interminabile viaggio su linee ferroviarie secondarie, con lunghissime soste senza motivo e cariche di paura, ci hanno anche fatto scendere a Trieste per controllare i nostri documenti e per spruzzarle il ddt anche sotto la gonna, quasi che chi proveniva dall’Istria dovesse per forza essere carico di pidocchi. E quel gesto l’aveva profondamente offesa tanto da non poterlo mai dimenticare.
Anche tra i miei riccioli hanno spruzzato quell’insetticida, ma io non lo ricordo. Me l’ha solo raccontato la mamma con gli occhi tristi e pieni di pianto.
Ora tornavo a Rovigno per rivedere il mare, per respirare la sua aria impregnata di sole e di sale, per ritrovare la mia città con ancora i suoi tanti segni di latinità, venezianità e italianità incisi nelle sue pietre, nella sua identità più profonda. Guardavo le lapidi in latino, i leoni di San Marco, i palazzi con le bifore e i nomi dei dogi, le vie tornate a chiamarsi nuovamente con i loro nomi storici. Guardavo la casa dei nonni in via Santa Croce, sulla salita verso il Duomo mentre cercavo di allontanare altri orribili ricordi, rimasti impressi nella mia mente di bambina e chiusi per sempre dentro di me: le urla, i corpi esanimi, le pietre sporche di sangue e… quegli “alberi” tristi sul molo.
“Alberi” strani quelli che erano rimasti impressi nella mia mente di bambina mentre raggiungevo la stazione ferroviaria quella fredda mattina di febbraio di tanto tempo prima. Era già passata una vita.
Avevo tentato più volte di farmeli ricordare quegli “alberi” in faccia al mare da mia mamma. Ma lei si era sempre rifiutata di parlarmene. E, per tanto tempo, ho faticato a capire il perché. Poi qualcuno, non ricordo chi, me l’ha detto: sul molo c’erano degli uomini che penzolavano impiccati ai bracci dei lampioni. Ed io li avevo visti con i miei occhi di bambina ed erano rimasti sempre dentro di me come se fossero degli strani “alberi” con i rami piegati verso terra.
Ero tornata alla mia Rovigno sul mare istriano perché volevo rivedere la mia casa ed ora mi trovavo davanti alla sua porta con il cuore in gola e la mente piena di immagini, piena di ricordi che andavano a sovrapporsi l’uno sull’altro, senza ordine, senza nessuna logica, quasi fossero dei geni liberati dopo esser stati troppo a lungo compressi in una bottiglia che le onde avevano fatto approdare sulla spiaggia sassosa della mia Rovigno.
«Vorrei poter rivedere la mia casa dove… ». Solo queste parole sono riuscita a pronunciare in un soffio e con fatica alla donna che mi ha aperto la porta.
Sul suo volto ho visto passare una domanda, ma solo per un brevissimo momento. Poi ha capito, si è fatta in disparte e mi ha lasciato entrare…
E da quelle pareti mi è venuta incontro la mia prima infanzia, fino a che gli occhi mi si sono velati di pianto e un senso di vertigine ha rischiato di farmi cadere sul pavimento dove avevo giocato felice e spensierata. Come erano ancora belle quelle piccole mattonelle esagonali rosse!
Quelle stanze, nonostante i cambiamenti subiti dopo la mia partenza, le conoscevo ancora molto bene, mi erano ancora tanto familiari. E non potevo smettere di girare attorno i miei occhi per cercare una conferma a tutti i ricordi del mio passato.
Ma quella non era più la mia casa. I miei diritti non esistevano più.
L’avevano deciso gli altri là in alto: i nostri possedimenti, tutte le nostre cose dovevano servire per risarcire i danni che la guerra degli italiani aveva inflitto all’Istria parte della nuova terra destinata solo agli slavi del sud e a quanti di noi avessimo accettato di non sentirci più italiani.
Ancora una volta una porta si chiudeva alle mie spalle mentre venivo invitata a tornare con sorrisi stentati e palese imbarazzo. Ed io avvertivo chiaramente che non potevo odiare, che non riuscivo a portare rancore verso quelle persone che ora abitavano la mia casa di Rovigno in faccia al mare istriano. Anche loro erano protagoniste, proprio come me, di una storia ingiusta, difficile da capire e tanto, troppo dolorosa. Ben altri erano i veri colpevoli di tutta quella nostra sofferenza.
La vita continua pure dopo di noi. Anche se, a volte, ci vuole molto tempo per poterla accettare questa verità. E, forse, una sola esistenza non è sufficiente.
Giuseppe Corrà