Barbarani Berto
… a cura di Graziano M.Cobelli
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Il nome per esteso è Roberto Tiberio detto Berto, nato a Verona il 3 dicembre 1872. Il papà di Berto, Bortolo, aveva un negozio di ferramenta vicino a casa. Sposato con Anita, ebbero tre figlie: Berto, Vittorio e Maria. Il fratello Vittorio invece era dottore come pure lo zio Giovanni. Della sorella Maria sappiamo solo che fu ricoverata per esaurimento nervoso. I figli di Bortolo, viste le condizioni economiche modeste del padre, vengono mandati a studiare al collegio Vescovile e successivamente al Liceo Classico Maffei. Nel 1883, con la morte del papà, Berto è costretto a lasciare il liceo per permettere al fratello di continuare gli studi in maniera completa. Il Poeta riprenderà successivamente a studiare privatamente con Renato Simoni a Villa San Leonardo e nel 1889 prenderà la Licenza Liceale. Grazie all’Amico Renato Simoni, che lavorava già da tempo, Berto finisce gli studi liceali e viene assunto presso il quotidiano democratico “L’Adese”, dove conosce Angelo Dall’Oca Bianca. Nel 1902 passa a lavorare per il quotidiano “Il Gazzettino” e li vi rimane fino al 1932. Nel frattempo il Poeta collabora con altri giornali e riviste nazionali ma soprattutto si dedica a scrivere la sue Poesie. Una curiosità, Barbarani viene convinto dagli Amici a pubblicare la sua prima Poesia “Letara a Nina” sul giornale “Can da la Scala” e si firma come Barbi-cane. Il 26 gennaio 1900 Berto Barbarani legge le sue Poesie a Milano, presso “La Famiglia Artistica”, oltre a riscuotere un grande successo conosce numerosi artisti e tutta la stampa inizia a parlare del Poeta veronese. Con Crespi, ma soprattutto con Testoni e Trilussa comincia a girare per le città italiane e il pubblico apprezza sempre più Berto. Trilussa arriva a Verona nel 1921 accompagnato da Arnoldo Mondadori, al quale fa conoscere Berto e in pochi giorni viene ufficializzata alla stampa l’inizio della collaborazione tra il famoso Editore ed il Poeta. La prima raccolta di Poesie viene pubblicata nel 1895 “El Rosario del Cor”. Due anni dopo arriva il grande successo e il primo premio a Zevio con “I Pitochi”. Seguono il Canzoniere Veronese e ‘l Poemetto “El Campanar de Avesa” nel 1900. Cinque anni dopo sarà conosciuto come “El Poeta de Verona” grazie al Poemetto “Giulieta e Romeo”. Vanno citate anche il Canzoniere Veronese “I Sogni” e “L’Autuno del Poeta”. Quando annuncia agli Amici l’intenzione di sposarsi, questi rimangono increduli e non credono che “lo scapolone” abbia deciso di mettere su famiglia. Invece nel 1927 sposa Anita Turrini (Ana). Giovane ragazza di Cremona che gestiva un negozio di giocattoli nella città dove il Poeta in più di un’occasione si reca per le sue letture. Nessuno, a parte i 2 testimoni, vengono a sapere del matrimonio civile, celebrato nella città lombarda. Due mesi dopo però l’ufficializzazione e la celebrazione del matrimonio nella chiesa di Santa Anastasia da parte di Don Bassi. Con lo scoppio della seconda Guerra Mondiale i giovani sposi si rifugiano a Soave. Li il Poeta vi rimane fino alla morte della moglie nel 1944, quando decide di tornare nella vecchia casa a Verona in Via Pigna. E’ il 1945 quando la città viene rasa al suolo da un disastroso bombardamento da parte dei tedeschi. Barbarani si ammala gravemente e viene portato in ospedale ma le numerose cure non servono a nulla ed il Poeta muore la notte del 27 gennaio.
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I va in Merica
Fulminadi da un fraco de tempesta,
l’erba dei prè par na metà passìa
brusà le vigne da la malatia
che no lassa i vilani mai de pèsta;
ipotecando tuto quel che resta,
col formento che val ‘na carestia,
ogni paese el g’à la so agonia
e le fameie un pelagroso a testa!
Crepà la vaca che dasea el formaio,
morta la dona a partorir ‘na fiola,
protestà la cambiale dal notaio,
una festa, seradi a l’ostaria,
co un gran pugno batù sora la tola:
“Porca Italia” i bastiema: “andemo via!”
E i se conta in fra tuti. – In quanti sio?-
Apena diese, che pol far strapasso;
el resto done co i putini in brasso,
el resto, veci e puteleti a drio.
Ma a star qua, no se magna no, par dio,
bisognarà pur farlo sto gran passo,
se l’inverno el ne capita col giasso,
pori nualtri, el ghe ne fa un desio!
Drento l’Otobre, carghi de fagoti,
dopo aver dito mal de tuti i siori,
dopo aver fusilà tri quatro goti;
co la testa sbarlota, imbriagada,
i se da du struconi in tra de lori,
e tontonando i ciapa su la strada!
Vanno in America: Fulminati da un sacco di tempesta,/l’erba dei prati mezza appassita/bruciate le vigne per la malattia/che non abbandona mai i contadini;//ipotecando tutto ciò che resta,/con il frumento ad infimo prezzo/ogni paese ha la sua agonia/e le famiglie un malato di pellagra a testa!//Morta la vacca che dava il formaggio,/morta la moglie partorendo una figlia,/protestata una cambiale dal notaio,//una domenica, chiusi in un’osteria,/con un gran pugno battuto sul tavolo:/”Porca Italia” bestemmiano: “andiamo via!”//E si contano fra loro. – In quanti siete? -/Appena dieci, che possono sopportare il lavoro duro;/il resto donne con bambini in braccio,/il resto, vecchi e bambini al seguito.//Ma a star qui, non si mangia, per Dio,/bisognerà pur farlo questo passo,/se l’inverno ritorna con il gelo/poveri noi, ne fa una strage!//Entra Ottobre, carichi di umili bagagli,/dopo aver parlato male di tutti i signori,/dopo aver trangugiato tre o quattro bicchieri di vino;//con la testa frastornata, ubriaca,/si danno due abbracci tra loro,/e brontolando,
si avviano!
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El Gobo
I.
L’era li fermo sul canton del gheto
che el sigava: ”Cerini! Fulminanti!”
Co la testa cassada nel coleto
e la bottega a pingolon davanti.
Gobo qua, gobo là, gobo, gobeto,
siga i mostri, stigadi da i birbanti,
e lu sconto de drio de un portegheto,
el li manda a l’inferno tuti quanti!
Che quando un poro can nasse segnado,
no i le ciama col nome de bateso,
ma gobo, storto, strupio, mal taiado…
Invesse se l’è un sior come che va,
el pol èssar più storto de un ponteso,
guai la Madona a dir la verità!
II.
A mesanote i sera la locanda
e bastiemando, el gobo el se rampéga
sora i scalini de na ciesa granda,
co la fame che ‘l stomego ghe sbrega.
Lu no ‘l g’à leto, lu no ‘l g’à una branda,
nè un paion, nè un cussin, nè una carega,
ma el va zo co la testa da una banda
su i scatolini de la so botega;
e sognando ghe par, che da i ceríni
salta su, co la facia invernisada,
de le done in camisa a farghe inchini,
che lo invida a balar qualche matada,
che ghe tasta la goba co i dentini…
E i è done che lu el vende in strada!
III.
Una ghe parla: gobo, come vala?
E lu el risponde: La va male, e lei?
Questa quà su i zenoci la ghe bala
e lu pronto el ghe petena i cavei.
St’altra, dobada de una tenda giala,
la ghe dise, tocandolo co i dèi:
Te pesa sto fagoto su la spala?
E lu da gnagno: Bei cerini, bei!
Oh che sogni! Corgà sora i scalini,
forsi stanote la ghe passa lissia,
parche guai se lo cata i questurini…
Sangue, i è quà! Par colpa del la luna,
i lo ciapa, i lo scurla, i lo desmissia…
Gnanca i gobi a sto mondo g’à fortuna!
Il Gobbo:
(I) Era li fermo sull’angolo del ghetto/che gridava: ”Cerini! Fiammiferi!”//Con la testa incassata nel colletto/ e la bottega a penzoloni davanti.//Gobbo di qua, gobbo di là, gobbo, gobbetto,/gridano i monelli, aizzati dai birbanti,/e lui nascosto dietro un portichetto,/ li manda all’inferno tuttiquanti!//E’ perché quando un poveraccio nasce dalla sorte segnato,/non lo chiamano con il nome di battesimo,/ma gobbo, storto, storpio, mal tagliato…//Invece se è un signore si sa come gira,può essere storto più duna campata d’un ponte,/guai alla Madonna a dire la verità!//
(II) A mezzanotte chiudono la locanda/e bestemmiando, il gobbo si arrampica/sopra i gradini di una chiesa grande,/con la fame che gli lacera lo stomaco.//Lui non ha un letto, lui non ha una branda,/né un materasso, né un cuscino, né una sedia,/ma scende con la testa da un lato/sulle scatolette della sua bottega;/e sognando ghe par, che dai cerini/salti su, con la faccia inverniciata,/delle donne in camicia a fargli inchini,/che lo invitano a ballare qualche pazzia,
che gli assaggia la gobba con i denti…//E sono le donne alle quali vende in strada!//
(III) Una gli parla: gobbo, come va?//e lui le risponde: Va male, e lei?//Questa qui sulle ginocchia gli balla/e lui pronto le pettina i capelli.//Quest’altra, addobbata da una tenda gialla,/gli dice, toccandolo con le dita:/Ti pesa questo fagotto sulla spalla?//E lui sornione: Belli i cerini, belli!//Oh che sogni! Disteso sopra i gradini,/forse stanotte la passa liscia,/perché guai se lo trovano i questurini…//Accidenti, sono qui! per colpa della luna,/lo prendono, lo scuotono, lo svegliano…//Nemmeno i gobbi a questo mondo hanno fortuna.
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Foto da Wikipedia
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