15. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “Congedo (dall’“Inverno”, in attesa della “Primavera”)”

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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15. Congedo (dall’“Inverno”, in attesa della “Primavera”)

Così conclude Lorenzi il primo Canto, “L’inverno”, questo si legge nella stanza CLII
                                               Dolce mi sia tra voi posarmi intanto
                                             del mio primo camin giunto alla meta:
                                           doman, poi che sia sorto il nuovo giorno,
                                                   farò al canto, e al lavor ritorno.
Quattro versi chiarissimi, leggibilissimi, anche oggi, nonostante l’imperversare del linguaggio semplificato degli SMS. Non sempre la lettura del testo di Lorenzi consente una tale leggerezza interpretativa, ma qui ci è andata bene. Leggibilissimi, dicevo, ed affettuosi anche, e vicinissimi ai montanari: Dolce mi sia tra voi posarmi: un sentimento bonario, amabile, persino tenero. E con questi sentimenti indugia anche scrivendone alla contessa Silvia Curtoni Verza nel 1821: «Mi son trattenuto a riguardare un villano, che seminava bietola…». Non c’è dubbio, è un ribadire il piacere di trovarsi tra la propria gente. Non solo, ma una lettera di cinquant’anni prima al nobile signor conte Marcantonio Miniscalchi, con sintetica esclamazione, lo conferma, nella sua estrema sinteticità: «Ho voglia di villa»! E sarà pure stato il desiderio di ritirarsi in campagna per dedicarsi agli studi, ma in questo “voglia di villa” ci leggerei anche l’amore per il campo. Del resto è lui stesso a chiarire questi processi, queste attese, nella stanza precedente, la CLI:
                                                        Felice vita, aurei costumi, e puri
                                                          soavissimi studj, ozi innocenti.
Sentimenti ribaditi anche altrove, ripetutamente confermati, come in un’altra lettera, questa volta al conte Marcantonio Pompei: … mentre tra questi studj innocenti vo ricreando la mente. E ancora, a don Antonio Cerini: Ho degli studj fra mano che mi rapiscono. In quel frangente di secolo è avvertibile ovunque una simile sensibilità preromantica tale che fa parlare Pindemonte così: «di piaceri, che quanto volentieri si lascian sentire dall’anima, tanto mal soffrono d’esser con penna descritti». Ma qui, mi rendo conto, si scivola verso un altro versante, non certo estraneo ma collaterale. Tutto questo, però, – che si tratti di Lorenzi o di Pindemonte o di Parini o di altri ancora – ha una sede speciale, insostituibile: ciò può avvenire solo lì, nella collina, a contatto con la terra e con la fatica, con i silenzi e con la pace che la rendono unica.
Si riposa, dunque, l’abate, perché è giunto alla meta del suo primo camin, che è il racconto dell’ “Inverno”. Un cammino lungo oltre un migliaio di versi, e dunque giusto e meritato è il riposo richiesto che altro non consiste che in quegli ozi innocenti che fanno da pendant ai soavissimi studj.
Del resto sarà pausa breve se doman farò al lavor ritorno.
Così, dopo 242 anni, mi consenta l’abate di fare mie parole e pensieri suoi. Il riposarsi di Lorenzi con i suoi villan sia anche il mio riposarmi con i lettori. A grande distanza, senza alcuna pretesa, anch’io sono giunto a questa prima tappa intermedia: la mia lettura del suo Inverno. E anch’io, per un poco, prenderò congedo. Tuttavia posso ben promettere che i prossimi mesi mi troveranno certo al lavoro per scoprire cosa ci riserverà la stagione della rinascita, la primavera, leggendo e rileggendo le sue rime.

 (Aldo Ridolfi, fine)

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