6. I montanari
…a cura di Aldo Ridolfi
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Giuseppe Luigi Pellegrini, Abate e Conte, in escursione al Ponte di Veja
6. I montanari
La bellezza agreste e primitiva di Giare è niente rispetto all’umanità che i suoi abitanti riescono, con tutta naturalezza, ad esprimere. Infatti, e a scanso di equivoci, è l’abate stesso che si premura, con una nota a piè di pagina, di far avvertito il lettore che se pur qualche «finzione», nel suo racconto, è possibile, «niente non v’ha di finzione in ciò che dicasi della famigliuola». Come dire: attenzione che l’estro poetico trasforma le cose, le fa diventare altre da quelle che sono, ma con le persone – nella fattispecie i montanari di Giare – ciò non avviene ché esse sono proprio così come vengono raccontate.
A spingere il Pellegrini a tanto entusiasmo non è solamente la polenta, «la gialla massa» che «irrora di gratissimo odor l’aura campestre», né il buon vino che a quanto sembra viene servito con generosità: «Intorno vanno del vin le conche»! L’emozione di Luigi Pellegrini è frutto in modo particolare dell’umanità sincera e autentica di cui quell’ambiente è colmo. A partire dalla «canuta Madre» cui riserva la lettera maiuscola che, assieme all’aggettivo “canuta” trasporta quella montanara in un’aura quasi sacrale di saggezza silenziosa, di autorità indiscussa. Alla donna fanno corona i «tre adulti figli… le caste mogli… i picciolin nipoti». L’opera pedagogica è andata a segno, senza manuali e senza intellettualismi. E l’anziana Madre si è avvalsa soltanto della spontaneità vitale che solo in quei luoghi lontani è rintracciabile in evidenti quantità. E’ che qui, a Giare, presso la piccola famigliuola, la sincerità di comportamenti e di sentimenti la fa da padrona. Perfino questi «teneri fanciulli s’in d’ora abborron la menzogna»! Nessun comportamento è costruito o è tale da adeguarsi, con una punta di opportunismo, alle diverse situazioni, ma ogni cosa avviene attraverso la manifestazione immediata dei propri sentimenti. Si respira un’allegria giovanile. E si osservi non solo che tutti son pieni di «candor puro», ma soprattutto che questo è «omai sol de le selve romito abitator».
Questo candore, questa purezza, questa trasparenza dell’anima non si trova nelle città. Ritorna la contrapposizione che già abbiamo visto nella puntata precedente quando Pellegrini mette a confronto i tuguri di Giare e relativi oggetti di creta informe con i palazzi cittadini e decreta la sconfitta etica di questi ultimi al punto da augurarsi che «piombi il fulmin su le ardite torri della città».
Però, però se i versi di Pellegrini poco più avanti trascinano nel gorgo devastante della disapprovazione la molle vita della città – «insano lusso, incivil boria, ozio vil,…» – qualcosa di quella civiltà si salva, “deve” salvarsi, e meglio ancora se ciò avviene attraverso le sagge parole delle “canuta Madre” la quale, rivolgendosi a Dimice, così si esprime: «Ravviso / ne le dolci sembianze un’alma pura, / e un generoso cor: quale palesa / il Figlio tuo, che Figlio tuo cotesto / a la soave, e accorta indole il credo». La donna, onesta, laboriosa, priva di ogni doppio fondo, sincera, trasparente, saggia, dedita al lavoro, autorevole, scevra da ogni ingordigia, con le sue parole garantisce per Dimice e la toglie dal crogiolo malsano della società “civile”. Non è il poeta a farlo, ché sarebbe apparso – a noi malignamente diffidenti – almeno sospetto, ma un personaggio terzo, la «canuta Madre», in grado di giudicare partendo da aspetti piccoli e insignificanti ma capace di giungere al cuore delle persone.
E Dimice ne esce, ancora una volta, luminosa e onesta.
Aldo Ridolfi (continua)