28. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Estate – In difesa del “villan””
…a cura di Aldo Ridolfi
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28. In difesa del “villan”
Ma il villano non è, per l’abate Lorenzi, solo quell’astuto individuo voglioso di celare i suoi errori, le sue malefatte. Il contadino è comunque un valore da proteggere, senza di lui viene a mancare ogni produzione campestre, ogni aspetto della proprietà è destinato a degradarsi. E allora ecco che la rampogna si sposta verso i signori, i proprietari, spesso poco attenti al benessere dei loro lavoratori:
Ov’ è l’onor de le montane ville,
se al ben non serve de la gente nostra?
Che giova, che di drappi arda e sfaville
la casa del signor con ricca mostra? (stanza CXXV)
Non vi può essere legittima dignità per i signori del luogo, possessori delle montane ville, se non perseguono il bene dei lavoratori. A nulla serve, aggiunge, che la casa del signore risplenda facendo bella mostra di sé se le più elementari esigenze dei popolani non vengono considerate. Ecco allora qualche suggerimento a vantaggio dei villici:
Difenda il pio villan, lo tolga a mille
morbi e mostri del loco; orni la chiostra,
sì che ’l topo ne snidi, ed altri asili
si cerchi aracne ove sospenda i fili. (stanza CXXV),
ove “chiostra” ha valore di “rifugio” e dunque di casa, abitazione: s’impegni il signore perché la residenza del suo lavorante sia salubre e comoda, sgombra di animali fastidiosi e dannosi, come topi e ragni.
Esplicito attorno alla figura del villico è anche Giuseppe Parini, 1758, quando, ne “La salubrità dell’aria”, offre una limpida e idealizzata rappresentazione della vita dei campi:
sotto ad una fresc’ombra
celebrerò col verso
i villan vispi e sciolti
sparsi per li ricolti;
e i membri non mai stanchi
dietro al crescente pane.
E la difesa dei montanari, dei contadini, di chi abita a stretto contatto con la natura è anche argomento gradito a J.J. Rousseu il quale, ne La nuova Eloisa, muovendo i suoi passi nel Vallese, racconta «della semplicità, della costanza d’umore, della splendida tranquillità che li fa felici»; in loro vede «una disinteressata umanità, una premurosa ospitalità».
Ma, per ritornare al poema, Lorenzi non trascura di ricordare cosa accadrebbe se il villano abbandonasse i campi: giacerebbe inutile e arrugginita la vecchia zappa, la gramigna esulterebbe non più messa a tacere dal costante lavorio dell’uomo e la campagna si inselvatichirebbe:
Giacque l’usata marra, e non gli dolse
se tra le piante da mestizia offese
esultò la gramigna; e in modi strani
arsero i solchi, e germinar taffani. (stanza CXLI)
Ma la visione idilliaca del contadino settecentesco, se mai c’è stata, deve essersi in qualche momento smarrita se anche dopo la Seconda (e allora chiamata ottimisticamente “ultima”) guerra la situazione sociale dei contadini delle nostre parti era ben diversa. Lavori incessanti, mancanza di contanti, comodità del tutto assenti (la luce elettrica, tanto per fare un esempio, in alcune contrade della valle d’Illasi è arrivata negli anni sessanta e l’acqua potabile addirittura sul finire del millennio) facevano del montanaro, del contadino in generale, anche del piccolo proprietario, un essere a parte tanto che i matrimoni, spesso, avvenivano in una sorta di particolare endogamia all’interno della stessa classe sociale.
Con la metà del secolo XX le cose sono cambiate. Enormemente. Ma questa sarebbe una storia a latere.
Resta una domanda, angosciosa e spiazzante: ma l’abate Lorenzi, Giuseppe Parini e anco il filosofo Rousseau ce l’hanno raccontata giusta?
(Aldo Ridolfi, 2 continua)