L’Alpino: “IL PRIMO CONVEGNO DELL’ADUNATA A.N.A. SULL’ORTIGARA – Discorso tenuto da don Giulio Bevilacqua tenente cappellano batt. Alpini Stelvio”
…a cura di Ilario Péraro
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“IL PRIMO CONVEGNO DELL’ADUNATA A.N.A. SULL’ORTIGARA parte 2”
Discorso tenuto da don Giulio Bevilacqua tenente cappellano batt. Alpini Stelvio decorato con 2 medaglie al valore in occasione della 1a Adunata Nazionale Alpini 5 settembre 1920 sull’ Ortigara.
Alpini, Fanti, Bersaglieri, Artiglieri, fratelli tutti di passione!
Amici che voleste salire con noi il Calvario Alpino. Come ieri! Come nel giorno nostro, grande e amaro! Lo stesso cielo, l’identica montagna, un nemico davanti e uno alle spalle; un altare, una tomba sola, una solitudine sconfinata come nel giugno imporporato del ’17, come nel luglio del ’16; mesi di vendemmia per il sangue alpino; quando avemmo ferro per pane, fuoco per bocche senza saliva, sputi per compenso; quando la sera dell’immolazione restammo inchiodati quassù, soli ad assaporare l’ultimo fiele della bevanda atroce! È guardando in questo supremo rifugio spirituale che l’anima alpina ha carpito il segreto per conservarsi calma anche nell’urto delle costellazioni e dei mondi, per mantenersi pura anche sopra nebbie avvolgenti, formate d’ogni miasma, d’ogni sordido tepore saliente dai cimiteri scoperchiati, che ormai compongono la vita; delta di cloache, morte mal sepolta, ventre gonfio di putrefazione! È l’identica sacra montagna; titano della terra lanciato all’assalto del cielo; capo regale che ha insegnato alle fiamme verdi la scienza dell’onore, il sale della vita. Si può arrestarsi, impallidire, ma piegare, mai! Una tomba sola. Solo qui potevano celebrare il nostro rito di Passione. Qui dove tutto è stato dato e dove nulla è stato chiesto. Alpini! Superstiti sbandati del gregge di morte! Sentite quello che laggiù gli uomini non possono sentire, perché come i simulacri delle genti hanno gli occhi e non vedono, hanno orecchie ma non odono. Sentite! Dall’Ortigara abbiamo cominciato la nostra glorificazione del sacrificio alpino. Perché l’Ortigara non è una sconfitta. Lo fu per chi vide dal basso e da vicino, e l’oggetto troppo addossato all’occhio ostruisce, acceca. Lo fu come episodio, come momento isolato di un fatto immenso. Non lo è più nell’oggi che non tramonta, nel tessuto definitivo della civiltà dove il cronista segnava disfatta e supplicava oblìo. Colui che vede dall’alto pronunciò; vittoria e scrisse, primo non dimenticare. Maledetto chi gioca con la parola, con la metafora tronfia e teatrale. Maledetto chi tenta strozzare sia pure con cordoni d’oro, la verità. Maledetto colui che costruisce castelli di frasi su la grande tomba. Ma l’Ortigara non è una sconfitta non vi è, non vi è sconfitta se non quando qualche cosa di umano è stato smarrito, impoverito, soppresso. La notte alpina non conosce questa oscurità perché ignora il disonore. Per 16 giorni tenemmo testa all’inferno! Il fuoco, la creatura più terribile e più misteriosa, più indomabile e più libera nelle sue vie, non ha più nulla da dirci; ora la conosciamo come un torrente di morte, come un vento che urla vicino, lontano, esprimente ogni voce, ogni alito, ogni supplica, ogni bestemmia, la conosciamo come violenta d’odio che denuda, insanguina, tortura, solleva fino al cielo la protesta torbida della montagna ferita come delle membra mutilate. Per 16 giorni strisciammo sul ferro e nel fango le nostre carni sbrindellate, rodendo, il pane sul ventre dei morti, respirando il loro alito; attirati sempre più in alto, verso le spire più strette. Verso il rogo infinito. Ore impregnate d’eternità del 25 giugno, quando neppure la speranza poteva infrangere le porte di questa tragica fatalità. Totale penetrazione di morte nell’ultimo filo di vita! Il pericolo non era morire era d’impazzire. In una notte di ottobre, sotto un velario di luce fusa che proveniva da tutti gli abissi di neve che si succedono all’orizzonte sterminato, proprio da questa trincea nemica, partì, un canto, una modulazione, nostalgica, lenta, piena di pause intercalata di silenzi. Lì di fronte, su la trincea del campanaro, una vedetta aveva lasciato cadere il fucile, singhiozzando disperatamente. Ai suoi piedi, l’elmo rovesciato su la neve sembrava una colossale orbita nera interrogante. Lo minacciai… invano! Eran cataratte irrefrenabili di pianto. Dopo due ore, nella stessa trincea mani di bronzo mi afferrarono. Era lui! Mi pareva più alto, più bello, agitato da forze misteriose e non umane… dietro a lui qualche cosa di gigantesco si irradiava perdendosi nelle ombre! Non chiedo, disse all’ufficiale, ma al Sacerdote… era possibile non sentire? Era possibile parlare di nemico? Basta guerre basta guerre per Cristo! Per il tuo sacrificio, per la tua fronte che più tardi baciai, irrigidita, nell’infinità della morte, perché il sangue non fosse inutile. La nostra anima non è orientata che dalla vostra tomba la nostra vita non è che il vostro respiro! Ciò che il braccio vostro irrigidito interruppe, l’anima nostra compirà fino all’impossibile, basta schiavitù basta guerra perché niente è impossibile alla fede alpina. Vivere laggiù, non è facile. Respirare è un problema. Ieri maledicemmo la morte perché venne; oggi la malediciamo perché tarda. Avendo conosciuto l’ebbrezza del morire in piedi, non è più possibile addormentarsi nello stupido letto orizzontale della mediocrità e della vigliaccheria. Ortigara, libro tessuto con gli stracci della carne e con gli splendori dell’anima alpina. I Pigmei vollero compiere la città dei giganti e non seppero. Vollero distruggerla e non spostarono pietra da pietra. Ortigara, sei città di giganti, nulla è possibile aggiungerti nulla è possibile toglierti. Ortigara, cattedrale degli Alpini, momento zenitale del sacrificio umano monte della nostra trasfigurazione incubo e sogno delle nostre notti. Anima insanguinata dell’umana passione alpina.
Ilario Péraro