36. Della coltivazione de’ monti dell’abate Bartolomeo Lorenzi: “L’Autunno – Una presentazione dell’Autunno”.

…a cura di Aldo Ridolfi

Poesia

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Ritorna l’abate Lorenzi dopo una breve pausa. 

AUTUNNO

               36. “Una presentazione dell’Autunno”.

L’autunno (23 settembre-21 dicembre) non è stagione di tristezza, di foglie morte, di giornate uggiose. Almeno nei primi mesi. Per l’abate Lorenzi, no di sicuro, perché così ce lo presenta:

Su le apriche colline autunno riede
de duri agricoltori ultima cura (stanza I)

dove l’aggettivo “apriche”, soleggiate, si inserisce in un contesto lessicale meteorologicamente ancora piacevole, sereno. E si stabilisce uno stretto legame tra la collina, la stagione e l’agricoltore. È una visione olistica della vita, allora possibile: senza la presenza umana, richiamata prepotentemente dal verso 2, l’ambiente agrario e la stagione perderebbero il protagonista più importante, l’uomo.
Appena più avanti, nella stanza III, Lorenzi ribadisce la sua visione dell’autunno:

Questa bella stagion, credo, volgea
a far lo stato e il viver più giocondo.

Ha ragione, credo (uso, come Lorenzi, questo dubitativo, così denso di sfumature semantiche), l’abate ad usare l’aggettivo “bello”, perché, per quanto inflazionato, continua a mantenere, nella sua stupefacente semplicità, una pura forza descrittiva ed affettiva. E lascia anche intendere, almeno dal suo punto di vista, come l’abbondanza che caratterizza questi mesi abbia un impatto anche sulla psiche facendo «il viver più giocondo».
Bella, sì, era la stagione autunnale: tempo delle noci, dell’uva, delle castagne, dei pomi d’oro, delle mele e delle pere da inverno, giustificata è dunque l’immagine che l’abate ci propone anche più avanti:

se non fosse che ricolmo e sazio
con sì benigna mano i pampinosi
suoi tesor ti versasse Autunno in seno. (stanza XLIX)

L’anno solare, al tempo dell’abate e anche della nostra infanzia, era scandito da eventi certi, noti da tempo, in parte prevedibili e dunque non angoscianti. La stagione delle grandinate, dell’afa irrespirabile, delle alzate in ore antelucane, dei lavori pesanti sotto il sole rovente, era alle spalle. In autunno le fatiche si diluivano, meno pressanti essendo i lavori campestri. Ciò a fine Settecento come negli anni Cinquanta del XX secolo.
Luigi Alamanni nella Raccolta di poemi georgici, nel 1785, parla di «pomifero Autunno» e di «piovifero autunno», e così continuava:

ch’ogni arbor mostra
spiegati al ciel le vaghe sue ricchezze
nel tardo Autunno,

centrando con perfezione quelli che sono anche i nostri ricordi di alberi che, quasi come in una mitica età dell’oro, offrivano i loro frutti senza la necessità di discutibili trattamenti anticrittogamici. Forse perché ci si accontentava, forse perché vi era migliore equilibrio ambientale.
All’Alamanni fa eco Lorenzi che, in una lettera alla nobile Metilde Peracini Todeschini confessa: «Non veggo l’ora che l’autunno mi chiami nella mia villa», ove per “villa” intende i suoi campi, la collina, la campagna. Ed analogo desiderio muove anche un altro illustre settecentesco, Antonio Tirabosco, noto autore de L’uccellagione, il quale, secondo quanto scrive il Pindemonte, «nell’autunno correa subito alla sua villetta di Centro la qual siede tra Mezzane ed Illasi». Poco importa che l’indicazione geografica del Pindemonte sia approssimativa, quello che conta è che l’atmosfera autunnale coincide nella narrazione che ne fanno i diversi autori.
È pur vero quanto scrive Benedetto del Bene, segretario dell’ “Accademia d’Agricoltura, commercio ed arti”, nell’Elogio dell’abate Bartolomeo Lorenzi, e cioè che «sotto la penna del Lorenzi tutto si abbellisce di nuove grazie e di nuovi fiori», ma è altrettanto vero che, pur nell’estrema povertà della vita di collina appena dopo la guerra, l’autunno portava questa pausa di generosità: ce lo ricordavano sempre – assieme all’indubitabile nostra esperienza – anche i libri di lettura delle scuole elementari.

(Aldo Ridolfi, 1 continua)

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