8. Strani incontri: 2
…a cura di Aldo Ridolfi
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Giuseppe Luigi Pellegrini, Abate e Conte, in escursione al Ponte di Veja
- Strani incontri: 2
Il secondo strano incontro ha luogo proprio in una delle caverne che si affacciano ai piedi del ponte. Lì, l’«occhio indagator» del Pellegrini viene richiamato da una «bocca / d’orribil antro ch’è di dentro bujo / di notte eterna». L’attrazione che questa “bocca infernale” esercita sull’abate possiede la forza seducente dell’irrazionale; il pericolo, anziché respingere, esercita il suo ambiguo potere; la sicurezza diventa parametro secondario, ininfluente. Ed è così forte l’incantesimo dell’ignoto da fargli dimenticare una questione che pochi attimi prima gli aveva posto Dimice e alla quale non aveva ancora dato adeguata risposta. Comportamento, quest’ultimo, davvero singolare per Luigi Pellegrini che letteralmente pende, come abbiamo visto e come di sicuro vedremo in seguito, dalle labbra di Dimice.
Tuttavia ciò che lo spinge ad inoltrarsi nell’oscuro pertugio, a suo dire, non è il fascino del sublime o l’irresistibile calamita esercitata dall’ignoto, ma «il desio di saper». Già questa perentoria affermazione dovrebbe indurci a collocare il Pellegrini nell’alveo del pensiero illuminista. Basti soltanto pensare, in questa prospettiva, che il poemetto è del 1785, che l’Encyclopédie di Diderot e D’Alambert viene terminata nel 1772 e che l’”Accademia di Agricoltura” (oggi “Accademia di Agricoltura Scienze e Lettere” con sede a Verona in palazzo Erbisti) viene fondata nel 1768.
Ma lasciamo tali più impegnative riflessioni per seguire l’abate lungo questa strana esplorazione nella quale, con fare più impulsivo che razionale, si sta impegnando. E infatti Dimice lo richiama alla prudenza, ma lui, quale intrepido avventuriero ed esploratore navigato, è «già dentro»! E dentro, come le due torce illuminano la volta della grotta, ecco un nugolo di nottole (pipistrelli) che, risvegliate dalla luce, impressionano il malcapitato abate, l’improvvisato speleologo. Quei «sozzi augelli… mi piombarono addosso», racconta il Pellegrini che non sopporta «quell’orror» e decide di uscire senza por altro tempo in mezzo, giudicando di sicuro, ma questo lui non lo scrive, più degna la vicinanza di Dimice che lo svolazzare delle nottole.
È, a questo punto, un crescendo di stati d’animo: appena mette il naso nel pertugio per uscire, le due fiaccole si spengono sotto la forza di un soffio inaudito ed egli si trova a tu per tu con un serpente che, invece, intende entrare. E mentre il poeta si ritrae verso il fondo, l’immondo animale avanza verso di lui con una tale luce che gli esce dagli occhi che illumina a giorno un cippo recante scolpita una lunga epigrafe: è la tragica storia del pastore Cereo e del suo amore per Veja, vicenda che racconteremo tra qualche puntata.
Letto che il poeta ebbe il racconto, il serpente sparisce e con lui ogni illuminazione nella grotta viene meno, sicché l’intrepido esploratore si ritrova paralizzato entro il buio all’improvviso piombato in quello speco che con tanto entusiasmo aveva poco prima penetrato. Chi mai avrebbe potuto toglierlo dalla “paralisi” indotta dalla paura? Il pensiero di Dimice, signori miei, il pensiero di Dimice: «Infin prevalse / de’ vari affetti il più tenero, ch’era / di rivederti ancor, Dimice»! E quando finalmente esce, l’abate viene colpito da «doppio raggio / del tuo sguardo, e del Sol: né so dire dei due / qual di più gioja penetrasse l’alma»!
Dichiarazioni davvero “compromettenti” per un abate, ma certamente di grande classe, di raro, squisito, platonico corteggiamento.
Aldo Ridolfi (continua)