L’Amore al tempo della guerra… Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi… di Paola Azzolini… Nota di Giancarlo Volpato – 24
…a cura di Giancarlo Volpato
Cari Amici,
sono onorato di potervi comunicare l’uscita dell’ultima Opera a cura di
Paola Azzolini
L’Amore al tempo della guerra
Lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi
cliccando sulla cover qui sotto potrete apprezzare la quarta
di copertina ed un breve cenno Bio-bibliografico dell’Autrice
Paola Azzolini, L’amore al tempo della guerra: lettere di Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi, Padova, Il Poligrafo, 2015; 287 p.
“Ho letto questa tua lettera, oh se la fede accordasse più di un Dio, io crederei in due, il Cristo e in te”. Terminava così, la sua missiva da Padova il 20 agosto 1849, Ottavia Arici ad Aleardo Aleardi; ma non era l’unica volta che al suo poeta la nobildonna bresciana, in quell’epoca a Padova, dedicava accenti non facilmente uguagliabili nella scrittura epistolare femminile dell’Ottocento. Non aveva avuto mai timore di usare una terminologia riservata alle voci maschili, non si era mai trattenuta dall’esprimere – con una garbata ma non nascosta chiarezza – i sentimenti più intimi, più sensuali e sostanzialmente molto veri.
Ottavia Arici, se si trascura qualche piccolo caso, non è mai apparsa alle cronache letterarie e, forse, se il suo amante non fosse stato quel bellissimo e fascinoso Aleardi – in quell’epoca poeta acclamato e grande avversatore degli austriaci – ella non avrebbe mai avuto la dignità di fare conoscere al mondo dei colti il suo epistolario.
In quei due anni di fuoco, 1848-1849, Aleardi era fuggito da Verona per non incorrere nelle tenaglie degli uomini dell’Imperatore Asburgo e si era fermato, casualmente e brevemente, nella casa di Ottavia Arici la quale, abbandonata dal marito e con tre figli da allevare, gestiva un luogo per dormire. Quell’incontro provocò nella giovane e bellissima donna l’avvio di un amore che non avrebbe più trovato scampo nella sua vita: ma non in quella di Aleardi, assai più attento alle molte accondiscendenze femminili oltreché a guardarsi da ciò che gli eventi politici avrebbero potuto fargli provare. “Aprimi le braccia, è sonata l’ora dopo la mezzanotte, qui guardo il letto ma è vedovo di te e qui al tavolino mi par d’essere più tua”; “hai disimparato a baciare! Oh, che gusto! Imparerai da me, e come farai presto, io ti darò lezioni gratis e continuate”; “abbiti per sempre tutti i miei baci e tutte le carezze mie da sposa novizia. Fammi tua se vuoi ch’io viva”.
La lettura, davvero affascinante delle missive di Ottavia scritte con un linguaggio estremamente piano e senza arzigogoli né tentennamenti, porta a riflettere sul senso vero della vita di questi due personaggi. Sola, abbandonata, madre affettuosa e premurosa, la giovane donna subì una violenza inaudita dalle vicende dell’esistenza con un marito fedifrago, incoerente, che malauguratamente la vita assolse per il semplice fatto di essere un uomo; se Ottavia avesse scelto un’altra forma da dare ai suoi giorni sarebbe stata tacciata di ben altre istanze. Aleardi, poeta acclamato e ardente antiaustriaco, amico di coloro che speravano nel riscatto di un’Italia tradita, non era una persona felice: il successo del quale in quell’epoca poteva vantarsi l’avrebbe abbandonato di lì a poco e il suo fascino indubbio non avrebbe lasciato grandi segni.
Così, la parte finale dell’epistolario di Ottavia Arici, lascia bene intravvedere come si sarebbero messe le vicende delle loro vite. Piuttosto refrattario all’amore della donna – pure così dolce nelle sue lettere – il poeta veronese poteva certamente rispondere alle missive inviategli (e noi non possediamo quelle di lui); ma l’animo di lei, squisitamente femminile e aperto ad una sensibilità che pure il romantico autore di versi non possedeva, seppe cogliere – lasciandola nel dolore più forte – la sostanziale lontananza di colui che le aveva fatto battere il cuore, l’aveva fatta sognare, l’aveva coinvolta nel dolcissimo e straordinario sentimento dell’amore; per lui – ma, forse, non solo – ella aveva abbracciato la causa antiaustriaca con un’adesione morale e con una convinzione che le lettere hanno bene messo in luce.
Paola Azzolini ha saputo leggere le missive di Ottavia proprio con quest’animo; con molta cura e con una scelta che ci trova totalmente concordi, ha alternato le parole di lei e i moti dello spirito di una donna coraggiosa; il suo commento non è mai avulso, non è mai lontano, è assolutamente imparziale, con un’attenzione ed una grazia che coinvolgono il lettore introducendolo nelle lunghe missive. I suoi commenti, scritti in corsivo – e, quindi, facilmente percepibili – diventano spesso una conclusione: quella, ma non solo, che forse Ottavia avrebbe voluto dire; le descrizioni di qualche momento, di qualche paesaggio, della realtà storica dell’epoca altro non sono che l’acquisizione della realtà. Sarà la stessa Ottavia, quasi alla fine del rapporto, a scrivere, con una percezione assoluta: “Quando io tanto piangeva in febbraio ero presaga che mai si sarebbero ricomposte le nostre cose: ma tu caro, tu hai il vantaggio del tuo ingegno, dei tuoi parenti, dei tuoi antichi amici; io non ho nulla e se io ne piango, non è debolezza che meriti biasimo”. Era il 6 settembre 1849 e aggiungeva: “E tu passerai, né verrai da me!”. La congiunzione iniziale, che presupponeva una lunga riflessione, rievocava, da sola, la condizione che l’autrice delle lettere ormai conosceva.
Come sempre, come accadde nei secoli, anche questa volta la dolcissima donna Ottavia Arici aveva ragione. Quella specie di dio che ella aveva intravvisto per recuperare la fiducia in se stessa e nel suo amore appassionato – e con cui abbiamo esordito in questa nota – non aveva più alcun motivo per essere tale.
Giancarlo Volpato