Etimologia 70 (Postuma) – (Toponimi)
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Etimologia 70 (Postuma) – (Toponimi)
Bartolomeo Rubele – Un falso eroe
Il lungadige Bartolomeo Rubele (dal Ponte delle Navi al Ponte Nuovo) è noto a tutti i veronesi, perché è uno dei posti dove è relativamente agevole parcheggiare la macchina quando ci si reca in centro a fare compere o passeggiate. Non altrettanto noto, invece, è il motivo per cui al lungadige fu dato quel nome: si voleva rendere omaggio all’eroe di un famoso salvataggio compiuto durante un’inondazione del 1757.
Meno noto ancora è che quell’eroe, in realtà, non si chiamava Bartolomeo Rubele.
È merito del prof. Virginio Bertolini l’aver scoperto che non fu quel Rubele a effettuare lo storico salvataggio. Ma cominciamo dal principio, tenendo presente quello che il prof. Bertolini scrisse in proposito sul quotidiano “L’Arena” una decina di anni fa.
È il 2 settembre del 1757. L’Adige è in piena crescente dal giorno prima; ha invaso la città per due terzi, facendo danni considerevoli dappertutto.
Il Rengo (la campana del Comune posta sulla Torre dei Lamberti) suona a martello per chiamare la popolazione a fronteggiare la furia del fiume. La corrente trasporta tronchi, travi, mobili, utensili che urtano con forza contro i ponti, i mulini, le ruote idrofore e gli edifici sulle rive. La forza dell’acqua fu tale da far spalancare le porte del palazzo Pompei «Tuttoché chiuse con grossissimi catenacci, con forti puntelli sbarrate»; furono travolti sette mulini, dodici barche colme di sale (ormeggiate presso la Dogana con grosse funi) e numerose zattere.
A un certo punto, le due arcate centrali del Ponte delle Navi cedono e crollano nelle acque; l’alta torre del ponte, invece, resiste, ma inclinandosi verso nord, con il pericolo di venire anch’essa travolta da un momento all’altro. La torre era abitata (i ponti ospitarono delle abitazioni fino agli inizi del 1800); in quel momento vi si trovavano due donne, Caterina e Toscana Turella, con tre bambini. Spaventate nel sentir crollare il ponte, temendo di precipitare anch’esse nell’acqua limacciosa, gridarono disperatamente aiuto.
Dalla riva, la folla osserva impotente; qualcuno vorrebbe intervenire, ma non sa come fare, e l’Adige fa paura.
A un certo punto si fa strada un facchino che lavora nella vicina Dogana. Combinando ingegnosamente delle scale e delle corde, riesce a tendere una specie di passerella tra la riva e la torre. Quando gli sembra che la passerella sia pronta, chiede e ottiene da un sacerdote l’assoluzione, si fa il segno della croce e si avventura sull’improvvisato passaggio. Facendo la spola tra la torre e la riva, porta in salvo tutte e cinque le persone. Effettuato il salvataggio, il facchino rifiuta il sacchetto di monete d’oro offertogli dal conte Spolverini, presente al fatto insieme al podestà, e scompare tra la folla.
Ora, nei primi documenti che accennano al fatto si trova sempre Bartolomeo Leon (o Lion, Leone, Leoni) quale autore dell’eroico gesto. È solo dopo sessant’anni che salta fuori Bartolomeo Rubele: è nel 1825, difatti, che l’abate Venturi, parlando del salvataggio, lo attribuirà a Bartolomeo Rubele detto Leone del Comune di Valpantena.
Ma il vero eroe fu Bartolomeo Leon, non v’è dubbio. I documenti dell’epoca sono troppo espliciti e troppo attendibili: nel 1762 (quindi solo cinque anni dopo l’episodio), per esempio, il parroco di Mizzole scrive nello «stato d’anime» della sua parrocchia che tra gli abitanti v’è «Bartolomeo Leone, figlio del defunto sior Battista… Questo è quel famoso Leone che nella orribile segnalata inondazione dell’Adige il settembre 1757 cavò da quella vecchia torre a mezzo il Ponte delle Navi» le cinque persone.
Chi era, allora, Bartolomeo Rubele? Difficile dirlo. Forse si trattava di un giovanotto piuttosto prestante fisicamente che aveva assistito al salvataggio; dovette attribuirsi il soprannome di Leon – che sarebbe stato giustificato dal suo fisico – per farsi passare per Bartolomeo Leon e trarne così qualche vantaggio pratico (un vitalizio? Un premio in denaro?). Probabilmente egli abitava – o abitò – nella Valpantena e ciò gli permise di attribuirsi l’altra qualifica “dalla Valpantena”; egli avrà saputo che il vero eroe era nato in parrocchia di Poiano di Valpantena. I Rubele, comunque, erano originari del Cerro: in particolare, quella famiglia risiedette in località Foldruna, nella contrada Rùboli (il cui nome non è che un plurale di Rubele). Si trattava di una famiglia “cimbra”, appartenente cioè a quel gruppo etnico di stirpe tedesca, i cui ultimi discendenti si trovano ancor oggi a Giazza.
Già da qualche secolo prima i montanari del Cerro avevano la tendenza a scendere nella Valpantena: per i loro traffici con Verona conoscevano bene la valle, e quelli di loro che non ne potevano più della vita sui monti coglievano ogni minima occasione per stabilirsi in essa.
Insomma, Bartolomeo Rubele sarebbe stato un imbroglione. Piace pensare che egli sia ricorso al trucco dell’età avanzata, trovandosi in difficoltà economiche (allora non c’erano le pensioni…); ciò porterebbe a considerare il suo comportamento con una certa indulgenza.
Non si può escludere la possibilità, d’altra parte, che non vi sia stato nessun imbroglio, che l’abate Venturi abbia scambiato lui – in buona fede, sulla base di informazioni errate – Bartolomeo Rubele per il vero eroe.
Giovanni Rapelli
Articolo apparso in “Il Mattino di Verona”, 7 maggio 1982