Montale Eugenio
… a cura di Graziano M.Cobelli
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Poeta italiano nato a Genova nel 1896 e morto a Milano nel 1981. Trasferitosi a Firenze nel 1929, diresse il gabinetto di Vieusseux, donde fu poi allontanato per non aver aderito al fascismo. Nel secondo dopoguerra, si iscrisse al Partito d’Azione e fu tra i redattori del giornale “Il Mondo”. Nel 1965 gli è stato conferito il premio Nobel. Fin dalla più antica lirica di “Ossi di seppia” (1925), “Meriggiare pallido e assorto”, si configura già nell’aspro simbolo della “Muraglia”, la solitudine dell’uomo, prigioniero di un mondo ostile.
Non rimane al poeta che la lucida proclamazione della “divina indifferenza”, frutto di una stoica apatia (spesso il male di vivere), cui però si alterna la disperata constatazione dell’insanabile frattura tra noi e il nostro passato. Al centro della successiva raccolta, “Le Occasioni” (1939), sta la serie dei “Mottetti”, che assumono la forma di un colloquio d’amore con Clizia, la donna lontana, la cui immagine il poeta tenta fino all’ ultimo di sottrarre alla rovina della “memoria che si sfolla”, ma nella parte finale del libro, la vicenda d’amore si salda con il preannuncio della tragedia della guerra.
Cerniera verso il terzo libro montaliano è Finisterre (1943), il cui titolo allude al confine dell’imbarbarimento umano segnato dalla guerra. Nella Bufera e altro (1956) tale follia omicida ha il suo cupo scenario in uno specchio scuro, privo di immagini.
Il lavoro poetico successivo alla Bufera, dal 1962 al 1970, è raccolto in Satura.
Finissimo traduttore, Montale ha raccolto in volume i suoi articoli di costume, le sue prose di viaggio, le sue confessioni e annotazioni, i suoi saggi letterati.
Dopo un breve intervallo di politica militante nel Partito d’Azione, Montale diventa collaboratore del “Corriere della sera” e si stabilisce l’anno dopo a Milano, dove muore nel 1981, avendo prima ottenuto la nomina a senatore a vita e, nel 1975, il Premio Nobel per la Letteratura.
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Spesso il male di vivere ho incontrato
Spesso il male di vivere ho incontrato:
era il rivo strozzato che gorgoglia,
era l’incartocciarsi della foglia
riarsa, era il cavallo stramazzato.
Bene non seppi; fuori del prodigio
che schiude la divina Indifferenza:
era la statua nella sonnolenza
del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
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Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il nostro viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le tue.
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