Gonzato Silvino – “La famiglia Piotta”

…a cura di Elisa Zoppei

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Devo dire che mia sorella aveva ragione quando, qualche settimana fa, mi ha allungato il romanzo: “La famiglia Piotta:- C’è bisogno di ridere – mi ha detto – Leggilo.
In questo periodo che ci mette tutti alle asse, leggere, pure per me che ci sono abituata per mestiere, è diventato un moto di libertà, una passeggiata fuori mura. Sì, di risate ne ho davvero fatte tante, tutte venute su, libere e liberatorie dalle pagine di questo romanzo, l’ultimo che lo scrittore veronese Silvino Gonzato ha affidato alle stampe della valentissima casa editrice Neri Pozza*. Uscito nel 2019 è entrato nelle case a tenerci compagnia a raccontarci storie e storielle di una famiglia numerosa e rumorosa, come ormai, pure imbattendoci in nuove famiglie allargate, non se ne trovano più. Questa, così piena di risorse energetiche, così spontanea, vivace e caciarona, coinvolge pienamente la nostra sensibilità affettiva, uditiva, olfattiva, rendendoci reattivamente partecipi alle varie situazioni per lo più esilaranti, ma non prive di risvolti che fanno riflettere..

* Con la Neri Pozza Editore, sono arrivati in Italia molti dei più celebri romanzi del ’900 e di oggi, dovuti alla manageriale lungimiranza di Neri Pozza (1912-1988) che fondò l’omonima Casa editrice a Vicenza intorno agli anni quaranta. Combattente attivo nella Resistenza vicentina, Neri Pozza si distinse poi per l’impegno civile nei confronti della sua città. Scrittore, poeta, amante dell’arte e artista in senso lato, dedicò la vita per dare alla sua impresa editoriale l’impronta del continuo rinnovamento, concorrendo coi grandi “mastini” dell’editoria internazionale sia sul piano della qualità delle opere, che delle scelte editoriali particolarmente eleganti (elementi paratestuali: grafica caratteri di stampa, copertina, carta ecc…), nonché traduzioni accurate ed efficaci.

Silvino Gonzato

Veronesi e non, tutti conosciamo Silvino Gonzato, non solo come scrittore di romanzi, articoli di costume, saggi e biografie, ma anche per la sua lunga militanza giornalistica, soprattutto tra le pagine dell’Arena, dove dal 2002 firma la popolare rubrica di sua creazione “La posta della Olga”.
Le seguenti note biografiche sono stilate in prima persona dallo stesso autore che ha acconsentito amabilmente a scriverle dietro mia richiesta con domande precise sulla sua infanzia, aspirazioni, attese, sogni e traguardi… Lo ringrazio vivamente di essersi così simpaticamente messo in gioco anche da parte del Comitato Editoriale del Condominionews e dei Lettori.

Ritratto autobiografico di Silvino Gonzato

“Il bambino che ero lo ricordo poco. So che mi piaceva cantare e mi piaceva farlo dietro le sbarre del cancello del giardino che dava sulla strada. Ero un cardellino. Il vicinato apprezzava. Più di sessant’anni dopo, un lettore online della mia rubrica su L’Arena, “La Posta della Olga”, Giuseppe Compri, mi telefonò da Edmonton, in Canada, dove si era trasferito subito dopo la guerra, per chiedermi se fossi io il bambino che cantava dietro il cancello. Compri abitava di fronte, sopra il mugnaio. Con me, cantava a volte mia sorella, Silveria, che era più piccolina. I cardellini erano due. All’epoca in cui ero anche chierichetto, mi capitava a volte di cantare il “De Profundis” e adesso immagino che le gente apprezzasse meno le mie nenie da funerale. Un giorno, visto che ero pio, devoto e avevo un faccino da San Domenico Savio in erba, il parroco, don Giacomo Gentilin, mi chiese se da grande mi sarebbe piaciuto fare il prete. «Il prete no – gli risposi – ma il Papa sì». Mio padre, cui il parroco aveva riferito la mia risposta, ne rise compiaciuto e per molti anni, quando parlava di me, avrebbe raccontato l’aneddoto, vantandosene. L’importante è avere le idee chiare. Se poi sono irrealizzabili, non importa.

La mia ambizione, in realtà non era quella di diventare Papa, ma di fare l’ingegnere navale ma solo perché il mio maestro delle Elementari, di cui ricordo solo il cognome, Marasi, aveva prospettato per me, chissà come mai, un futuro da progettista di transatlantici. Anche se ne fossi stato convinto, ma non credo, quando poi al Liceo, cominciai a beccare raffiche di “2” in matematica, la mezza idea tramontò. Per costruire le navi qualche nozione di matematica bisogna averla.
Canterino sono rimasto e quando al “Cinema-teatro Nuovo” di San Michele mi esibii nella canzone “Mamma”, un sonoro rutto provocato da un’aranciata che avevo bevuto poco prima, mi fermò per un attimo ma poi ripresi e fui molto applaudito, anche per il rutto, credo. La passione per la musica e il canto sfociò, quando avevo appena sedici anni, nella composizione di una canzone che diventò un disco per la Casa discografica Durium, “Lascia il tuo mondo”. Come cantante avevo un manager (chiamiamolo così) che si chiamava Rosalino Rosa il quale mi portava in giro per i palcoscenici d’Italia. A un concorso a Manduria, in provincia di Taranto, arrivai prima di Mia Martini che allora portava il suo vero nome, Adriana Bertè. Presentava Enzo Tortora. Quando chiusero il sipario, che ricordo pesantissimo, verde e con le bordature in pelle, ne fui travolto, finendo a gambe all’aria. Le prove le facevo con mia sorella, sulle scale di casa, che garantivano una buona eco. Mi accompagnavo con la chitarra che mio padre mi aveva comprato a rate da Zecchini e avevo imparato a suonare guardando come mettevano le mani i chitarristi già affermati. Una sera, mentre cantavo in un teatro, mi sentì il capo di un complesso della Verona Beat, Walter Solimani, dei Condors. Cominciai a cantare con loro. Cantavo alla Elvis. Dopo passai a un altro complesso “Le Ombre”, poi a un altro ancora, gli “Sperimental Rock”. Infine negli anni dell’Università – Facoltà di Sociologia a Trento – andai a cantare in Danimarca e Svezia, nonostante l’opposizione dei miei genitori. Ancora adesso canto e suono con un complesso di ex professionisti o quasi. Tanto per tagliare l’aria ogni tanto. Perché l’aria che respiro è quella della scrittura. Da troppi anni ormai, ma mi diverto ancora. Scrivo per il giornale di giorno e scrivo libri di notte. Non ho mai cominciato a scrivere un libro prima di mezzanotte. L’unico rumore che sento è quello delle mie dita che tamburellano sulla tastiera del computer. Potessi usare ancora la mia vecchia macchina per scrivere lo farei ma i tempi sono cambiati. Una volta, quando “L’Arena” era a San Martino Buonalbergo rischiai di essere licenziato perché buttai la macchina per scrivere dalla finestra. Erano giorni che mancavano un paio di tasti e nessuno l’aveva riparata. Mi furono detratte 50 mila lire dallo stipendio e per fortuna la cosa finì lì.
A scuola ero molto bravo in Italiano e Latino. Il professore di Italiano leggeva spesso in classe i miei temi. Non so come fosse nata la mia passione per il giornalismo. Oltre a suonare la chitarra, cantare e scrivere non mi pareva di poter fare altro nella vita. Non avrei fatto certo un lavoro, diciamo così, sotto padrone e con levatacce mattutine. Cominciai a scrivere di letteratura sulla Terza Pagina de “L’Arena”. Recensioni di libri stranieri, soprattutto dei romanzieri dissidenti dell’allora Unione Sovietica per i quali ovviamente simpatizzavo. I miei genitori ci credevano. Mi vedevano ormai sistemato. Un giorno mi chiamò il direttore de L’Arena, Gilberto Formenti, che ricordo come un secondo padre, e mi assunse. In seguito avrei scritto per “Il Giornale di Montanelli” (per 14 anni) e collaborato ad altri quotidiani e riviste tra cui “Gente Viaggi” (Rusconi) ed “Espansione” (Mondadori).
Il mio primo incontro con Salgari fu alle Medie. Un amico mi aveva prestato “I misteri della jungla nera”, tenevo il libro aperto sulle ginocchia e leggevo sotto il banco, rapito da quella prosa incalzante e travolgente. Mi sentii afferrare per un orecchio. Non era Tremal-Naik ma il burbero insegnante che si era avvicinato senza che me ne accorgessi, tanto ero immerso nella lettura. Solo allora uscii dalla jungla nera. Molti anni dopo scrissi la prima biografia documentata del romanziere veronese. La pubblicò Neri Pozza ma un paio di anni prima era uscito un altro mio libro “Una tigre in redazione”, edito da Marsilio, su Salgari giornalista dell'”Arena” e della “Nuova Arena”. Pochissimi sapevano che Salgari era stato anche giornalista. È stato incredibilmente emozionante per me scovare tutti i suoi articoli, quasi tutti anonimi tranne qualcuno siglato E.S. o S.E. Dopo la pubblicazione della biografia (venne ristampata molti anni dopo, nel 2011, col titolo “La tempestosa vita di Capitan Salgari) mi scrisse il senatore Giovanni Spadolini, complimentandosi. Spadolini, grande estimatore di Salgari, il suo libro lo aveva annoverato tra i fondatori della Patria. Fui invitato a tenere conferenze su Salgari anche in Argentina, Brasile e Romania. Ora per me è acqua passata. Se ne stanno occupando altri.
A differenza di Salgari, ho girato il mondo, soprattutto Oriente, Africa e Sud America, e quasi mai come turista. Per me il viaggio era carburante per la scrittura. Ora, con i tempi che corrono e con l’età che avanza, non mi resta che viaggiare “autour de ma chambre” o fare il giro della mia scrivania. Non è la stessa cosa ma qualche rèfolo di ispirazione riesco ad acchiapparlo.
I premi letterari non mi piacciono. Fino a pochi anni fa, il mio editore, Neri Pozza, non iscriveva ai concorsi i libri dei propri autori. Ciononostante alcune  medagliette le ho prese e le tengo in un cassetto assieme a quella della Cresima. “Esploratori italiani”, “Venezia libertina” e Lievito madre”, storia della fabbrica, la Melegatti, salvata dagli operai, sono pluridecorati ma mi interessa poco o niente. Il mio entusiasmo si esaurisce con la fine della stesura del libro, non penso al destino che avrà, se si venderà poco o molto, se sarà premiato o castigato. È come scrivere una lettera, metterci l’anima e poi non spedirla. Quante lettere ho scritto in vita mia senza mai imbucarle! Mi bastava scriverle per riversare sulla carta quello che mi traboccava dentro. Mi secca anche andare in giro per l’Italia a presentare i miei libri. Spesso ho disertato presentazioni già programmate. Andavo malvolentieri anche al Salone del libro di Torino. Troppa confusione, troppa vanità, troppo divismo, troppi tromboni. In una delle ultime edizioni mi sedetti a un pianoforte e mi misi a suonare dimenticando che avrei dovuto tenere una conferenza allo stand della Regione Veneto. Ci andai ma in ritardo. Scrivere mi diverte, ma il contorno mi annoia.  Da diciotto anni mi balocco soprattutto con la mia rubrica areniana “La Posta della Olga” che ha una bella schiera di lettori. La Olga, cui piace dire le cose come stanno, sono io. Un giorno smetterò ma mi mancherà. O forse sarò io che mancherò a lei. Per la Olga ho preso la medaglia della città e mi è stata data per un giorno la fascia da sindaco. La conservo assieme al collare di cui mi gratificò il Bacanal del Gnoco”.

Gonzato ha messo il nostro Salgari in una cornice di riconosciuto valore, facendolo conoscere al mondo intero. Con personalissimo stile, sciolto e sicuro, ha tracciato il suo profilo di uomo e di scrittore, presentandolo in pagine di piacevole lettura, corredate di tanti inediti particolari sulla vita  scombinata dell’avventuroso creatore di meravigliose storie esotiche. Ne ha fatto un racconto capace di tenere il lettore col fiato sospeso incatenandolo alla parola scritta. Come organizzatore e propulsore della vita culturale cittadina, Gonzato ha organizzato in luoghi altamente prestigiosi, molti eventi di elevata importanza.

Per informazioni più dettagliate: (https://it.wikipedia.org/wiki/Silvino Gonzato).

Sembrerebbe un romanzo a sfondo preminentemente comico per le tante risate provocate da battutacce, e a leggerla con occhiali nettati dai pregiudizi, però, la storia emerge graffiante quanto basta per capire che l’autore mette il dito sulle antiche e nuove piaghe del politicame provincialesco e affonda le mani nello status esistenziale della gente che vive a fatica, ma con una sua dignità, a fianco di un ceto sociale con arie da borghesuccio.
Delfina, la protagonista, è una gran donna che si muove all’interno della sua caotica famiglia (cinque figli da badare e un godereccio marito buontempone, a carico), guidata da un sapienziale senso pratico, da farne una popolare eroina di biblica memoria: riesce a provvedere al sostentamento della famiglia, lavorando fuori casa a ore per arrotondare le entrate, tiene a bada il marito leghista Arci Piotta, pelato e “ipocondrito”, facendolo rigare dritto, ma anche compatendolo, e un po’ proteggendolo, che tanto, è fatto così. È una donna che pensa in proprio, ci vede nelle cose, e affronta a testa alta senza peli sulla lingua situazioni molto intricate, non di rado anche delicate. L’ho riconosciuta nelle donne della mia giovinezza paesana, pronte di spirito, avvezze a farsi su le maniche e tirare la carretta. Sapevano farsi ascoltare e rispettare, tenendo testa ai prepotenti che comandavano o se ne approfittavano facendo i furbi. In quell’appartamento di 90 m. quadrati, al sesto piano di un affollato casermone popolare, Delfina, è il capo incontrastato della famiglia Piotta, come moglie e madre sollecita. Fa salti mortali fra lavori saltuari e faccende domestiche, consentendosi qualche rara passeggiata in centro con l’amica del cuore Elide, più spensierata e meno integerrima, cui fa anche da angelo custode, mettendola in guardia dalle attenzioni dell’avvocato donnaiolo, del quale, quando ci casca  “lustra la scrivania”. Come?… col suo ben fornito” lato b” naturalmente, che nel romanzo viene sempre chiamato efficacemente, in conformità con gli usi e costumi letterari di oggi, culo, parola entrata con tante altre nell’ordinario parlare e scrivere dei più accreditati nomi della letteratura mondiale. Perciò quando la Delfina sbotta con un “Fanculo Arci” è sempre per qualche buon motivo.
In un aneddoto comico farsesco la vediamo che lo accompagna dal guaritore/impostore di turno, un po’ prendendolo in giro, un po’assecondando le sue debolezze: tanto sa che non lo può cambiare. Con qualche “fanculo” e uno sguardo severo mette a posto le cose, o per meglio dire se le fa andare bene. Una gran donna, che quando non ne può più piange di nascosto in bagno seduta sul water. E di motivi ne ha, e anche seri. Ogni giorno ne viene avanti uno. L’inquilina del piano di sopra che fa una guerra personale contro i rumori del piano di sotto, contro i vivacissimi gemelli Kevin e Denis che ne combinano di di tutti i colori…; Gloria, quasi diciottenne all’ultimo anno dell’Istituto  alberghiero, fa l’amore con Kosi, figlio di immigrati Ghanesi nato in Italia, bravo ragazzo lavoratore con buone intenzioni, e rimane incinta. Mentre il padre, muore di vergogna perché dovrà restituire la tessera ai leghisti, Delfina mostra la faccia a tutti, si schiera dalla parte dei ragazzi e pensa solo al modo di andare incontro ai loro bisogni di farsi un futuro e mettere su famiglia. L’incontro con la famiglia del moroso diventa un incontro aperto con la cultura e le tradizioni africane in una atmosfera di reciproca accettazione e collaborazione attiva. E di Ermes, adolescente appartato che vive nel suo mondo, e non frequenta ragazze, che cosa ne sarà? E se avesse tendenze gai? Beh, si vedrà… E le spese per il matrimonio come potrà sostenerle?… Ed Elide cascherà ancora nel trabocchetto di “lustrare la scrivania” all’avvocato?

Si raggiunge il clou della intesa e della condivisione durante il pranzo di natale consumato insieme alla veneta e all’africana. Ognuno impara qualcosa dall’altro e le risate le fanno  insieme.
In questa storia non c’è un finale vero e proprio, ma prelude una nuova avventura, forse la prima nella vita di Delfina, alla quale auguriamo di godersela proprio tutta.

Farà bene al cuore leggere questo romanzo dove tutto è raccontato con uno spirito di apertura all’altro, ignorando ogni posizione partitica o etica-morale, se non per metterle alla berlina, e favorire i contatti umani anche a mezzo di scherzose, ma anche forse non del tutto innocenti, toccatine di culo.

Elisa Zoppei

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