Hesse Hermann – “Siddharta”
…a cura di Elisa Zoppei
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Carissimi amici lettori, quello che vi presento è uno dei libri più letti e conosciuti al mondo, ma rappresenta sempre una inesauribile fonte di meraviglie che indicano vie misteriose per fare luce sui grandi interrogativi della vita. Stiamo vivendo un momento di confusione e disorientamento sia di fronte ai valori morali della nostra tradizione, sia rispetto ai corretti comportamenti socio umanitari nei nostri rapporti familiari e sociali. Questo libro parla a tutti, ma specialmente a coloro che non si accontentano della superficie delle cose, ma vogliono ragionare con la propria testa sui vari aspetti della convivenza e delle relazioni umane. Andarne al fondo, senza pregiudizi, rendendosi conto di se stessi e del loro rapporto col mondo. Devo confessare che la personalità dell’autore, la sua grandezza e profondità di spirito, più la sua straordinaria arte poetico narrativa, mi fanno sentire come una goccia d’acqua che, immersa in un vasto oceano di sorprendenti splendori, si sente sopraffatta. Non so se sono sufficientemente in grado di condividere con voi almeno una minima parte di quello che provo. Grazie della vostra attenzione e comprensione.
Era il 2 luglio 1877, quando nella cittadina sveva di Calw, situata nella Foresta nera, in una delle caratteristiche, graziose case della zona, nacque Hermann Hesse, da Otto Johannes Hesse, un cittadino tedesco nato in Estonia, ex missionario evangelico che aveva prestato la sua opera di evangelizzazione in India, e da Marie Gundert, figlia di Hermann Gundert, missionario effettivo in India dove lei nacque e dove visse durante l’infanzia e l’adolescenza. Il padre, colto poliglotta conoscitore di vari dialetti indiani, era famoso per aver compilato nel 1868 la grammatica della lingua Malayalam, (una delle lingue parlata in India), redatto il primo dizionario Malayalam-Inglese (1872) e curato la traduzione della Bibbia nel linguaggio malayalam. Quando Marie sposò Johannes Hesse, che era l’assistente di suo padre, la donna aveva 35 anni. Era vedova con due figli, bella, grandi occhi neri e sguardo penetrante. Di spirito vivace e intraprendente diede alla luce Hermann: “Un bambino sano, buono, bello e forte, accolto con gioia dagli altri fratellini” scrive la mamma nel suo diario giornaliero. In quel medesimo diario qualche anno dopo scriverà parole profetiche: “Il bambino ha una vitalità e una forza di volontà così decisa e un’intelligenza che sono sorprendenti per i suoi quattro anni. Che ne sarà di lui? Rabbrividisco solo al pensiero per ciò che una falsa e debole educazione potrebbe fare del piccolo Hermann”. Gli era stato dato il nome del suo importante nonno materno, invece dal padre Johannes ereditò un amore speciale per la natura, la gente e la patria, che lo accompagnò per tutta la vita. È un amore che traspare nei romanzi, li veste d’arte, quel tipo di arte che contraddistingue la scrittura di Hesse e la rende unica e inconfondibile. Amava isolarsi per ammirare il cielo azzurro, il volo degli uccelli; ciò lo ispirava a comporre poesie in un dialogo segreto con la natura. L’energica e vigorosa madre, gestiva la “Calwer Verlagsverein”, una della più importanti case editrici pietiste d’Europa. Da lei il bambino ereditò il fascino e l’amore per l’Oriente, che trasfuse nei suoi romanzi, tra i quali, il più sentito è naturalmente “Siddharta”. Dalla famiglia rigorosamente pietista di confessione protestante, Hermann ebbe una severa educazione in una atmosfera di pensosa meditazione più intransigente che affettuosa. Era un bambino sensibilissimo dall’intelligenza viva e il pensiero divergente, dotato di fervida fantasia, tale da causargli reazioni che spesso generavano incomprensioni e castighi. Fin da piccolo la libreria del nonno, piena di fascino e di mistero, esercitava su di lui una attrazione fatale, così come lo seducevano gli armadi della mamma stipati di meravigliosi tessuti orientali. Nel 1881 la famiglia si trasferì in Svizzera a Basilea, dove il padre doveva dirigere la rivista tedesca per missionari “Missionsmagazin”. Hermann aveva 4 anni e frequentò prima l’asilo e poi la scuola di base. Nell’“Infanzia del mago” (1923), rievoca la sua vita infantile incorniciandola di sogno e di fantasia, molto lontana da quella reale piena di divieti, punizioni e malinconie. Rifiutava il contatto con la realtà e voleva essere un mago per cambiare le cose, ricrearle liberamente con l’immaginazione. Voleva trasformare tutto il mondo in un luogo felice dove realizzare le sue aspirazioni al Bene e al Bello dello spirito. Nel 1890 fu mandato dai genitori in una scuola privata lontano da casa, per essere preparato agli esami di ammissione a una delle scuole protestanti più illustri della regione. Superò brillantemente la prova e fu ammesso al nuovo corso di studi nel seminario teologico protestante di Maulbronn, una scuola conventuale che preparava i giovani agli studi teologici attraverso l’apprendimento delle lingue antiche. Pur amando lo studio non sopportava le costrittive regole di vita dell’Istituto e per lui, ragazzino quattordicenne, iniziarono seri problemi. Cominciò a soffrire di mal di testa e insonnia, finché la crisi lo portò a un tentativo di fuga che naufragò, e nel 1892 sfociò in un tentativo di suicidio che fallì perché la pistola si inceppò, ma ne risentì talmente in profondità da rinnegare idealmente la religione in cui era cresciuto. La sua adolescenza conobbe il calvario delle cliniche psichiatriche per ragazzi affetti da disagi mentali, in cui trascorse dei mesi di nera disperazione. Per più di un anno Hermann passò da una scuola all’altra e da una casa di cura all’altra finché i genitori non lo riportarono nel 1893 a Calw. Un po’ alla volta si riprese e la salute migliorò. Si dava da fare, ma incostantemente, in casa, in giardino, nell’azienda editoriale e poiché amava i libri e la lettura fece periodi di apprendistato in una libreria. Era instabile e irrequieto e in segreto componeva poemi e racconti, deciso a intraprendere la carriera di scrittore. Suo padre tuttavia non gli permise di andarsene per inseguire le sue ambizioni. Solo più tardi dopo il 1895 poté lasciare la casa per impiegarsi come libraio a Tubinga, città universitaria aperta alle nuove correnti letterarie e ideologiche. Qui non ancora ventenne, superate le strettoie della famiglia e abbandonati i doveri scolastici, cominciò a seguire la sua strada di scrittore, intrecciando nuove relazioni amicali con letterati e romanzieri emergenti, nutrendo la sua fame di sapere con letture di ogni genere dalla letteratura medioevale ai romanzi tedeschi, alle opere orientali. Nel 1899, pubblicò i suoi “Canti romantici”, una raccolta di liriche e “Un’ora dopo mezzanotte”, che gli valsero le lodi del grande poeta Rainer Maria Rilke (1875-1926): «Le parole sono come di metallo e si leggono lente e pesanti». Ciò gli permise di crescere nella sua autostima, convinto di aver imboccato la via giusta: quella per cui, secondo il suo credo, “diventare un essere umano è un’arte». Arte intesa come raggiungimento di una soddisfazione interiore. Sempre in questo periodo lo troviamo a Basilea impiegato presso la libreria Reich. Vi rimase fino al 1903 continuando la sua attività letteraria facendo anche molte conoscenze e, sebbene fosse visto dagli altri più come un solitario e un introverso poco socievole, entrò in contatto con storici eruditi, svolse attività di mediatore culturale scoprendo e recensendo libri per orientare i lettori. Pubblicò un volumetto di poesie dedicato alla madre deceduta nel 1902, in parte scritte nel 1901 durante un viaggio in Italia. Vi era anche la poesia “Tienimi per mano”, presentata da Graziano Cobelli in questo Sito (Angolo della Poesia). Continuò a scrivere poemi e recensioni, tuttavia il primo vero successo giunse con l’uscita del romanzo “Peter Camenzind” (1904), storia di timbro autobiografico, in cui l’autore narra il viaggio del protagonista alla ricerca di se stesso, il cammino verso la sua trasformazione interiore, il suo bisogno di ritirarsi dal chiasso del mondo per dedicarsi anima e corpo alla contemplazione e all’arte. Nello stesso anno sposò Maria Bernoulli, (Mia) una donna indipendente di 35 anni (9 più di lui) fotografa di professione, appassionata di musica e proveniente da una famiglia di famosi scienziati. Andarono a vivere nei pressi del lago di Costanza sul confine svizzero-tedesco, in una casa di campagna isolata con giardino frutteto e vista sul lago. Gli sposi contavano di vivere bucolicamente a contatto con la natura, ma seppure allietata dall’arrivo di tre figli, da quasi subito la relazione si rivelò difficile, più che altro per l’incapacità di lui, minato da continue crisi esistenziali, di adattarsi a una vita di normale routine. Furono comunque anni di intensa attività produttiva, collaborando a vari giornali e riviste, corrispondendo con poeti e pittori di spicco. Nel 1906 pubblicò il romanzo sempre a sfondo autobiografico “Sotto la ruota”, in cui rievocava le traumatiche esperienze della sua adolescenza legate alle sofferenze patite nel collegio di Maulbronn. Nel 1910 uscì “Gertrud”, storia di un amore infelice. Nel 1911 si recò in viaggio in Oriente, alla ricerca di pace interiore, senza però raggiungere l’India e ammalandosi lungo la via. Partecipava alla vita intellettuale in sordina vincendo premi letterari, coltivando amicizie con famosi scrittori musicisti e artisti. Con la moglie le cose non andavano bene, lei era troppo autosufficiente, e non reggendo agli sbalzi umorali del marito, che faceva debiti, beveva, e forse qualcos’altro, lo lasciava solo per lunghi periodi, rischiando di ammattire pure lei. Anche con i figli c’erano dei problemi. Si trasferirono a Berna nel 1912 con la speranza di migliorare le cose e la salute. Qui per staccarsi da Maria e alleviare la sua solitudine, Hermann si dedicò alla pittura ottenendo brillanti risultati per i suoi acquerelli. Continuò successivamente a scrivere articoli contro la guerra imminente, pur cadendo in una profonda crisi personale e artistica, che operò una svolta decisiva nella sua poetica e lo portò a scrivere “Demian”, un romanzo di formazione: la storia di un adolescente timido aiutato nella sua crescita da un amico. Pubblicato nel 1919, riscosse un grande successo di critica e di pubblico. Durante il periodo bellico, ritenuto cagionevole di salute, non prese parte alla guerra di trincea, potendo solo riversare negli scritti le sue posizioni pacifiste, non sempre comprese dai connazionali. Nel 1917 dovette essere ricoverato in una casa di cura per esaurimento nervoso e sottoposto al trattamento psicoanalitico da Gustav Jung. Nel 1919 si separò definitivamente dalla moglie e si trasferì a Montagnola nei pressi di Lugano in Svizzera dove si stabili nella pittoresca Casa Camuzzi (oggi Museo) e si dedicò attivamente alla pittura, sua seconda passione, che lo aiutò a uscire dalla depressione. Aveva 42 anni e la sua vita continuò sempre con la speranza di andare verso tempi migliori. Non si allineò mai ad alcuna ideologia ma seguì la sua vocazione di “cercatore”, di artista alla ricerca di se stesso. Nel 1923 ricevette la cittadinanza svizzera, ottenne il divorzio dalla prima moglie e si dilettò, dipingendo, facendo lunghe passeggiate e conducendo un tenore di vita semplice a contatto con la natura. Nel 1924 convolò a nuove nozze con una fanciulla di cui si era perdutamente innamorato, di vent’anni più giovane che studiava canto. Il matrimonio stette in piedi per pochissimo tempo. Frugando fra le carte. o meglio navigando fra i vari siti internet, si scopre che i due non potevano stare vicini a lungo, che si vedevano saltuariamente, che il loro fosse un rapporto più da padre-figlia, che di attrazione erotica. Inevitabilmente lei e lui si sentirono presto infelici, e nel 1927. si decisero per il divorzio. Nello stesso anno uscì Il lupo nella steppa, un romanzo che riflette la crisi emotiva dell’autore, ossessionato dal pensiero della morte, alle prese con l’eterno conflitto fra il bene e il male la natura belluina dell’uomo e la sua anima spirituale. Anche lui, come il protagonista del libro, per superare la sua natura introversa e sottoposta alla depressione, cominciò a frequentare le taverne, le sale da ballo e i luoghi turistici più famosi. Nel 1928. incontrò Ninon Dolbin Ausländer, una bella donna divorziata, affermata storica dell’arte e sua ammiratrice da tempo, che volle vivere con lui fin da subito. Si sposarono nel 1931 e lei gli rimase accanto fino alla fine, influenzandolo positivamente, comprendendo i suoi bisogni e sollevandolo dai suoi dissidi interiori. Nel 1930 Hesse scrisse “Narciso e Boccadoro”, storia di un’amicizia ambientata nel Medioevo cristiano, dove viene cantato l’amore per la donna ed esaltata la figura della madre.
Il ritiro nella grande casa di Montagnola accanto alla fedele lungimirante Ninon, consentì al Nostro di assestarsi anche sul piano degli scompensi psichici e assaporare il piacere di vivere la tranquilla routine quotidiana. In questa atmosfera iniziò il suo ultimo capolavoro “Il giuoco delle perle di vetro” che lo impegnò per dieci anni. La mattina e il pomeriggio si dedicava alla pittura (era ormai un pittore di riconosciuto valore), al giardinaggio e alla corrispondenza, mentre la sera leggeva e scriveva. Intanto si profilava all’orizzonte lo spaventoso incubo della seconda guerra mondiale che esplose nel 1939/40. Durante questi terribili anni Hesse e Ninon ospitarono nella loro casa di Montagnola un cospicuo numero di intellettuali fuggitivi. Contrario al razzismo al nazionalismo al militarismo, Hesse era però fermamente convinto che l’artista non potesse in alcun modo cambiare la società, e in lui si rafforzò l’idea che il ruolo dell’artista era quello di rimanere devoto alla propria arte e di non essere influenzato dalle ideologie né di destra né di sinistra. Scriverà comunque a proposito della persecuzione ebraica, che l’odio è frutto della paura sia nell’uomo primitivo come nell’uomo moderno e l’odio contro gli ebrei è causato da un complesso di inferiorità e di invidia. Incorporò queste sue riflessioni e quelle sull’arte e sull’educazione in “Il giuoco delle perle di vetro”, l’ultimo romanzo, che, pubblicato nel 1946, fu accolto dalle giovani generazioni come un Talmud, procurandogli una notorietà stratosferica e contribuendo notevolmente a fargli conferire il Premio Nobel per la letteratura, così motivato: “Per la sua scrittura ispirata che nel crescere in audacia e penetrazione esemplifica gli ideali umanitari classici, e per l’alta qualità dello stile”. Nonostante questo eccelso traguardo i disturbi della depressione continuarono a insidiarlo tanto che più volte dovette ritirarsi in una casa di cura e solo nel marzo del 1947 si sentì abbastanza in salute da fermarsi a Montagnola, dove trascorse i suoi ultimi quindici anni di vita. Qui troviamo un Hesse invecchiato, sempre cagionevole di salute e costretto a diminuire notevolmente la sua produzione letteraria e artistica Conduceva una vita privata pressoché “normale” occupandosi, oltre che della salute, di rispondere alle tante lettere che provenivano da tutto il mondo.
Si spense nel 1962 e fu sepolto a Montagnola. Subito dopo la morte divenne l’autore maggiormente apprezzato dai giovani, specie a partire degli anni settanta, eletto a loro bandiera dai “Figli dei fiori” che rifiutavano la guerra, il materialismo occidentale e ogni etichetta convenzionale.
Rimane ancora lo scrittore tedesco più letto nel mondo.
Dedicato al grande romanziere e critico musicale francese Romain Rolland (1866-1944) amico dell’autore, Siddhartha è il romanzo, bello più di una favola, in cui più di altri si rispecchia l’aspirazione dell’uomo a fare della propria vita un viaggio interiore spirituale di trasformazione profonda per arrivare a dominare la parte meno nobile di sé, superare i limiti fisici, vincere i capricci e gli inganni dei sensi, eliminare i desideri di terrene felicità. In altre parole pervenire a quella consapevolezza di sé che permette alla personalità di realizzarsi completamente e di vivere al massimo delle proprie possibilità sconfiggendo le banalità di un esistenza ordinaria.
In situazioni e tramature diverse quasi tutti i personaggi narrati da Hesse camminano nella storia, spinti da una sete interna di Assoluto, di una verità su cui fondare il proprio vitale universo, e tale assoluto possono trovarlo solo in se stessi. In ognuno di essi c’è il tormento e l’anelito dell’autore a raggiungere l’Essenza del Sé.
Siddhartha, il figlio del Brahmino, rivela fin dall’infanzia uno spirito luminoso volto alla scoperta del mondo. Già è stato introdotto agli arcani misteri religiosi, sa come si pronuncia 1’Om, la parola suprema, assorbendola in se stesso, emettendola silenziosamente, raccolto in sé. È un fanciullo avido di sapere che rende gioioso il cuore del padre che già vede svilupparsi in lui la sapienza e lo elegge a principe fra i Brahmini. Quel figlio forte e bello gonfia di gioia anche il petto di sua madre che lo ammira ed è fiera di lui. Siddhartha irraggia amore intorno a sé anche nelle fanciulle e soprattutto nel cuore dell’inseparabile amico di giochi Govinda il quale ama tutto ciò che Siddharta dice e fa, ma soprattutto ne ama lo spirito, i suoi alti, generosi pensieri, la sua volontà ardente, la vocazione sublime.
Ma Siddhartha non è felice. L’amore dei suoi genitori dell’amico delle fanciulle non gli basta per sentirsi in armonia con il suo io interiore. Ma dov’è questo Io, questa interiorità, questo Assoluto? Si fa delle domande alle quali nessuno sa dare una risposta. Deve cercare la via per trovarla, sa che è una meta lontana ma non sa che direzione prendere. Così un giorno passano di lì i Samana, asceti che vivono di poco o nulla, che imparano a immedesimarsi con tutto ciò che incontrano. Essi agli occhi di Siddharta appaiono segnati dalla solitudine e dalla rinuncia e li avverte come modelli da seguire. Vuole lasciare tutto e tutti per andare a stare con loro. Il padre subito glielo vieta e sottopone a dure prove l’ostinazione del figlio che vuole ad ogni costo ottenere il suo permesso. Sarà il padre a cedere a lasciarlo andare col cuore gonfio di dolore. Così i due amici partono insieme per andare a vivere con i Samana e diventare loro discepoli.
Il viaggio di Siddharta inizia con lo spogliarsi dei suoi vestiti e donarli ai poveri, indossare una tonaca color terra, sottoporsi a estenuanti digiuni, perdere la bellezza del volto e del corpo. Tutto ciò che vedono i suoi occhi allucinati è sporcizia miseria putridume. Vuole solo diventare vuoto e morire a se stesso “spersonalizzandosi”. E tace. E nel silenzio assopisce anche il palpito del cuore e impara ad uscire dal proprio io. Fra un esercizio di concentrazione e uno di spersonalizzazione, va con l’amico Govinda che lo segue come la sua ombra, a elemosinare e incontra uomini di tutti i tipi. Lo fa per tre anni senza che la sua sete di conoscenza non si acquieti mai. Finché un giorno i due amici vogliono andare a vedere il Buddha Gotama che si trova a passare nei dintorni, con la fronte serena circondato di giovani, senza ricchezze, senza casa, senza donna, avvolto nel giallo saio del pellegrino. E tutti si inchinano davanti a lui:grandi e piccoli.
I fedeli, ne osannano la somma sapienza, sicuri che lui ha raggiunto il nirvana e non rientrerà mai più nel circolo delle reincarnazioni. Il cuore di Govinda si inebria alle parole del volgo e chiede a Siddhartha di andare laggiù dove il Buddha annuncia la sua dottrina. Lasciano, non senza qualche ostacolo facilmente superato, i Samana e partono alla nuova avventura.
Govinda soggiogato dal fascino del Gotama decide di aggregarsi ai suoi seguaci e Siddhartha rimane quindi solo. Non si lascia ammaliare dalla dottrina del Venerabile Buddha col quale alla fine s’intrattiene amabilmente per dirgli che si è messo in cammino non per cercare un’altra e migliore dottrina, poiché sa che non ve n’è alcuna, ma per abbandonare tutte le dottrine e tutti i maestri e affidarsi all’illuminazione in modo da raggiungere da solo la sua meta o morire. Il volto sorridente e quieto del Budda e le sue sante parole rimarranno per sempre imprese nella memoria del giovane Siddhartha, ma non si ferma con lui e continua il suo viaggio pensoso e solitario. Ormai non è più un giovinetto si è fatto uomo ed ha raggiunto la consapevolezza che abbandonando tutte le dottrine la sua ricerca non si fermerà fino a quando non avrà trovato l’essenza dell'”Io” Camminando ripete a se stesso “Io, voglio conoscermi, voglio svelare quel mistero che ha nome Siddhartha”. Si è come risvegliato sulla strada che conduce a se stesso. In questo stato di grazia arriva in una città.
Si guarda attorno come se vedesse il mondo per la prima volta. Poi però gli si stringe il cuore in una morsa di gelo: ne ha fatta di strada ne ha fatte di esperienze, perché non se ne torna a casa dal padre? E che vita farebbe una volta a casa? Le sue mani sono vuote. Di sé non gli resta nulla. Sente un grande vuoto e si accorge di quanto è solo. Rabbrividisce. Nessuno sulla terra è solo come lui.
Qui, in questa solitudine comincia la sua vita di uomo. Si sente partecipe del mondo che lo circonda vede come fosse la prima volta le bellezze del creato, sente il piacere del calore del sole sulla pelle le stelle e la luna gli attraversano il cuore. È il preludio di quanto gli sta per accadere: s’innamorerà amerà una donna: la bella Kamala. Sarà per sempre?
Le pagine dell’amore terreno di Siddhartha e Kamala sono le più belle e le più toccanti, ma anche le più dolorose. Vi lascio qui cari lettori. Lascio a voi il piacere di leggere la parte conclusiva del viaggio di Siddhartha, che dopo essere stato figlio, farà la sua esperienza dolce amara di essere padre. Attraverserà la crisi profonda del suo sentirsi sconfitto da tutto, ma poi riprenderà la ricerca di una nuova strada che lo riporterà sulle sponde dello stesso fiume dal quale era partito.
Saprà ancora ascoltare la voce del fiume? Fino a che punto riuscirà a capire l’importanza dell’Amore nella vita degli esseri umani?
Buona lettura
Elisa