piccolo fratello, Il… – 47
…a cura di Graziano M. Cobelli
Il piccolo fratello
Gli ultimi Poeti raccontano la verità
Leggere Zanzotto e Giudici: contro l’usura contemporanea delle parole
La differenza tra i sociologi e i critici è che mentre i primi guardano alla quantità, cercando di individuare linee costanti ed elementi comuni ai fenomeni sociali, i critici devono distinguere esprimendo giudizi di valore. Si dice che la critica letteraria è al tramonto, ma non c’è mai stata una fase storica in cui fosse tanto indispensabile come oggi fare dei distinguo. Anche per questo è interessante il saggio di Giulio Ferroni su Gli ultimi poeti (questo il titolo del libro che uscirà la prossima settimana per il Saggiatore): Andrea Zanzotto e Giovanni Giudici. Perché? Perché ha il merito di riportarci di colpo ai valori assoluti della letteratura e al significato autentico delle parole nel mare aperto e indistinto di frasette e pensierini che leggiamo tutti i giorni nella Rete e fuori.
Scomparsi nel 2011, quasi coetanei, Zanzotto e Giudici (classe ’21 il primo, classe ’24 il secondo) hanno poco in comune, destini, abiti esistenziali e stili diversi. Il primo, immerso nel mondo campestre intorno alla sua Pieve di Soligo, è stato un poeta del paesaggio naturale, ne ha seguito le alterazioni fisiche che si riflettono nelle lacerazioni mentali, ha auscultato i sintomi della «malattia in fase terminale» di cui è vittima la biosfera, ha affrontato il «torvo mistero della catastrofe climatologica», la violazione ostinata dell’ambiente. Poeta urbano il secondo, inorridito di fronte alle trasformazioni della materia umana nel mondo del lavoro e nei rapporti sociali in genere, ha innescato una critica dall’interno del neocapitalismo, si è concentrato per lungo tempo sul vissuto dell’«uomo impiegatizio nella sua versione più tetra».
Ostico, a tratti oscuro, Zanzotto; più nitido e colloquiale Giudici. Sembrano quasi complementari l’uno all’altro. Ma collocati come sono in aree diverse dell’esistenza e della poetica, lanciano allarmi convergenti sulle emergenze del mondo e della poesia stessa, minacciata da una comunicazione autoriferita e incapace di comunicare. Ferroni non usa strumentazioni tecniche, pur maneggiandole con destrezza, per mettere a fuoco i nessi intimi e necessari tra scrittura, tradizione e contemporaneità. E mostra come due grandi poeti siano capaci di dialogare con il passato (gli autori cui sono rimasti fedeli) e con il presente. Mostra la differenza tra il parlare dell’attualità e l’incidere il bisturi affilatissimo della parola dentro la vita. Capovolge il senso comune di chi crede che la poesia veleggi sulle nuvole e che invece il discorso quotidiano (dagli editoriali ai post) riesca a coniugare l’immediatezza con l’analisi lucida sullo stato delle cose. Oggi più che mai sappiamo che è esattamente il contrario: siamo sommersi da urli e da ragionamenti a vuoto che hanno l’ambizione di spiegare come va il mondo e magari di guarirlo, mentre la poesia, consapevole della sua insufficienza, ci riporta al cuore oscuro della realtà. Un antidoto indispensabile: una decina di gocce al giorno, mattina e sera, che ci dia la forza di affrontare la nostra guerriglia quotidiana. RIPRODUZIONE RISERVATA
Di Stefano Paolo
Pagina 43 (12 marzo 2013) – Corriere della Sera
Fonte notizia: Fiorello Volpe