Kundera Milan – L’insostenibile leggerezza dell’essere
…a cura di Elisa Zoppei
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Nota biografica
La sua è stata la vita errabonda di un perseguitato politico, che ha creduto fino alla fine nell’uguaglianza spirituale degli esseri umani di qualsiasi fede e appartenenza etnica culturale, nella libertà di pensiero e nella forza dell’amore. Nacque il 1° di aprile del 1929 a Brno (Repubblica Ceca), seconda città per importanza dopo la capitale Praga, da una famiglia di rango intellettualmente prestigiosa. Il padre Ludvik (1891-1971), noto pianista,era direttore dell’Accademia musicale di Brno la JAMU, frequentata più tardi dallo stesso Milan, sviluppando una innata passione per il pianoforte e per la musica in generale, portandola spesso tra le pagine dei suoi libri quasi un sottofondo alle storie narrate, rubando metaforicamente mottetti sinfonie beethoviane per accompagnare una narrazione continuamente intrecciata a riflessioni di carattere psicoanalitico. Ogni personaggio è finemente particolareggiato nei suoi movimenti fisici e nelle sue reazioni interiori. Ebbe contatti precocemente attivi con la poesia, le prime pubblicazioni risalgono ai tempo della sua adolescenza, grazie al cugino Ludvick, più anziano di lui, pittore affermato all’interno della vita artistica surrealista, famoso traduttore e noto studioso di Dadaismo. Lo sostenne durante gli Studi di Cinema e i corsi universitari fino al conseguimento di una brillante laurea in Letterature comparate. Dopo essersi iscritto al Partito Comunista nel 1948 ed esserne espulso nel 1950, si schierò apertamente a favore delle Primavera di Praga, perdendo il posto di docente e venendo espulso dal Paese. Nel 1970 si rifugiò in Francia dove poté svolgere la sua docenza universitaria a Rennes e a Parigi dove visse fino alla fine dei suoi giorni terreni insieme alla moglie. Nel 1981 il presidente Francois Mitterand gli conferì la cittadinanza francese. Essendo state proibite le sue opere in Cecoslovacchia scrisse i suoi romanzi in lingua francese, per questo fortemente criticati nella patria di origine che ne proibì la lettura. È morto nella sua casa di Parigi l’11 luglio 2023.
Per notizie più dettagliate: https://it.wikipedia.org/wiki/Milan_Kundera
Titolo: L’insostenibile leggerezza dell’essere,
tr. di Giuseppe Dierna (Antonio Barbato),
Scritto nel 1982, pubblicato in Francia nel 1984
pubblicato in Italia da Adelphi, Milano nel 1985
Preambolo sul titolo ossimorico
La leggerezza dell’essere
è insostenibile,
perché è uno schermo
dietro cui nascondere
la reale essenza della vita:
la pesantezza esistenziale. (M.K.)
Quella che Milan Kundera sfoggia, pagina dopo pagina in questo intrigante romanzo d’amore, corrisponde, a mio avviso, a un’arte di raccontare, tutta sua, personalissima e che non può essere paragonata a nessun altro scrittore, classico o popolare, antico o moderno.
Condivido con Italo Calvino che Kundera è un romanziere vero, nel senso che sa concentrare il lettore sulla storia di ogni personaggio, suscitare di continuo il suo interesse introducendolo nelle intimità più private, nelle dinamiche relazionali delle varie coppie che si accoppiano appunto, nei singolari momenti facendo l’amore… Il “far l’amore” acquista in queste storie una esaltazione che sfiora l’incantesimo, senza mai perdere la dimensione della realtà.
Il romanzo è distribuito in cinque parti che non rispettano il dipanarsi sequenziale della trama. Tenendo conto che gran parte dell’azione si sviluppa nelle prime trenta pagine e che la conclusione è già annunciata a metà romanzo, ne deriva che il modo di raccontare di questo straordinario narratore procede a ondate successive: ogni storia viene completata e illuminata strato a strato, attraverso divagazioni e commenti che trasformano il problema privato in problema universale, dunque anche nostro. (da “La Repubblica” 1985 ).
È pur vero che la sua è un’arte che riaccende di continuo il piacere della lettura, trascinandoti ovunque in giro per Praga, la splendida capitale Ceca della primavera sessantottina, occupata, castigata e sottomessa al controllo dell’Unione Sovietica. E contemporaneamente intesse ogni particolare moto superficiale o profondo dell’anima dei personaggi, che si muovono sulla scena della vita non come in un teatro, ma proprio come se ci passassero accanto e ci volessero testimoni dei loro pensieri, dei loro movimenti, delle loro paure, dei loro orgasmi lussuriosi. In questo senso è un “romanzo intrigante” perché affronta con una impavida e audace disinvoltura i diversi volti dell’amore: quello consumato fra le tenerezze caserecce e appassionate della moglie Tereza, la giovane donna sola e sperduta nel magma degli eventi. Gli si era data anima e corpo fin dal primo incontro, dimenticando se stessa, impastandosi con la sua carne, soffrendo delle più atroci gelosie per quella sua debolezza di donnaiolo “epico”, ossessionato dalle donne, anche incontrate per caso, che non poteva fare a meno di portarsi a letto, usando la sessualità come lo scrigno che racchiudeva il mistero dell’io femminile. Ma non è uno “zoccolo” qualunque, è un affermato chirurgo di successo, attaccato al suo lavoro che esercita con uno scrupolo esemplare e che lascerà, adattandosi a lavare i vetri piuttosto che tradire i suoi ideali patriottici e la sua idea di libertà. Davanti a Tereza appare l’altra donna Sabina, pittrice d’avanguardia, bella esperta nell’arte della seduzione, che sotto gli occhi dell’amante di turno (Tomáš prima, Franz poi, bello elegante, illustre docente universitario, soggiogato a una sorte di complesso edipico), ama svestirsi davanti allo specchio, guardandosi e lasciandosi guardare invitante, promettendo con gli occhi ogni delizia peccaminosa. La sua “amicizia erotica” con Tomáš si prolunga negli anni, vissuta con la coerenza di una donna padrona di se stessa, che insieme ai capi di biancheria intima osé, indossa una vecchia bombetta nera, retaggio di tempi migliori, come un vessillo di battaglia e di vittoria.
Al di là di queste mie spontanee considerazioni dettate non tanto da ragionamenti profondi, ma dall’emozione epidermica che mi ha procurato leggere questo libro, vorrei dire che cosa mi ha lasciato. Mi ha comunicato il senso della fatalità delle cose che accadono, al di là della nostra volontà. “Es muss sein!” “Ciò deve essere!” ripete il refrain attinto all’ultimo quartetto di Beethoven, prospettato come una sorta di rassegnazione per ciò che non abbiamo scelto, ma ci è imposto dal destino come se anche l’amore fosse un fardello ineluttabile. Per chiarire a me stessa queste sensazioni, che mi disturbano non poco, dovrei scrivere il mio romanzo, ma mi accontento di questi pochi versi rubati a una delle più belle pagine del libro:
…..
ho visto
la tua rosa
fiorire
sulla sconfinata
landa nevosa
del silenzio
sulla soglia del sonno
nel rumore del nulla
si perdono le parole
BUONA LETTURA
Elisa Zoppei