L’Alpino: “CRISTO CON GLI ALPINI don Carlo Gnocchi”… – 32.2
…a cura di Ilario Péraro
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Brano tratto dal libro:
CRISTO CON GLI ALPINI
don Carlo Gnocchi
La diga
A Limarewka – un crocchio di squallide isbe disordinate come tutti i paesi rurali della Russia bianca – giunsi che era già sera inquieta e sonora per gli alti richiami lanciati sulla folla miserabile degli sbandati. Si gridava il nome dei reparti per tentare di raggruppare gli uomini, prima della notte.
Avevo perso una giornata sulla colonna degli Italiani. (Italiani, soldati, uomini potevano dirsi ancora quei mucchi di stracci che si trascinavano ormai da quindici giorni, come larve inebetite dal freddo e dalla fame, decimate dai combattimenti e braccate dal nemico?) Mi ero attardato per accompagnare un ufficiale mortalmente ferito, al seguito della sua slitta tarda e balzellante come la sua agonia atroce. ”Ho freddo!” E di freddo morì, più che per la pallottola che portava gelida nel rene.
Lo deposi sulla neve, lo benedissi, e ripresi da solo il cammino. (Come avrei potuto, o mamma, e con quali strumenti aprire la terra indurita dal gelo per dargli sepoltura?) Mi ritrovai nel folto della colonna scomposta degli ungheresi, sfatti, senza dignità, anch’essi e senza speranza. L’ignoranza della lingua, quella lor divisa triste color pepe, quel funereo loro sfacelo morale mi abbatté spiritualmente e per la prima volta disperai di salvarmi. Chiesi timidamente un po’ di pane a quegli tra loro che mi sembrava l’ufficiale e mi rispose un cupo mugolio ed un lampo di bramosia belluina negli occhi spenti.
Chiamai tutte le mie forze a raccolta nel ricordo delle persone e delle cose più care, ma invano. Fu allora che mi accasciai lentamente per terra e m’addormentai. Sentivo l’anima dilatarsi smisuratamente sul ritmo di una nenia triste e lontana. La Russia bianca m’entrava pallida e inesorabile nell’anima.
Mi risvegliai su di una slitta, buttato a traverso sul corpo dei feriti, muti e legnosi come cadaveri, sotto le coperte laminate dal gelo. Ed una manciata di zucchero, riserva preziosa del compagno che mi aveva salvato, mi ridonò il vigore. Ripresi a camminare perché il mulo non si attardasse per il troppo peso, ed entrai, come dicevo, a Limarewka.
I fuochi dei primi bivacchi arrossavano la neve ed il cielo, dando al paesaggio l’assurda allegria di una festa paesana. Entrai in una bassa costruzione sbrecciata dalle artiglierie e senza vetri, una scuola di campagna ad un solo piano. Sulla terra battuta giacevano disordinatamente decine di feriti e di congelati, affondati in una calma paurosa e nell’oscurità sempre più densa. Due uomini sorreggevano a spalla un generale tedesco con un largo piede penzolante. Una bomba a mano, toccata per sbaglio, gliel’aveva aperto come un enorme fiore vermiglio di carne e di sangue. Fu operato con un coltello da tasca, alla luce incerta dei fiammiferi, e morì dissanguato.
Intanto si era fatto notte e s’era levato il vento sinistro della steppa invernale. Quel vento dannato che ti caccia la neve nelle orecchie, negli occhi, nel collo e nell’anima, quel freddo che ti eccita, ti ubriaca fino al delirio.
E gli alpini cominciarono a far ressa sulle porte delle isbe calde e ricolme. Un grumo denso e frenetico di uomini cominciò a premere contro i soldati messi a difesa dei feriti e dei congelati raccolti nella piccola scuola campestre, mugulando a folate, col vento che saliva rabbioso dall’infinito. Per non morire dal freddo.
(Ma non è forse spietato quello che io sto per dire? Non è bene che le madri ignorino per sempre la sofferenza dei loro figli? Eppure, se la memoria dei morti deve essere sacra e il loro sacrificio indimenticato, se qualche peso di giustizia deve avere per noi e per essi il sangue versato, bisogna pure che si sappia!)
Il peso bruto degli uomini, ebbri di freddo e imploranti, ruppe alfine la fragile diga delle sentinelle e dilagò tempestoso per le stanze, camminando sui feriti e sui morenti. Fu tutto un groviglio di corpi e di grida, di bestemmie e di implorazioni, nelle tenebre di quella tana disperata.
Mi strinsi convulso alla parete per lasciar passare il fiotto di quei forsennati, graffiai nella faccia i più vicini ed uscii all’aperto.
Sotto una tempesta di stelle insolenti in un cielo di vetro pungente, mi lasciai andare lungo un muro, inebetito dal terrore muto e impotente.
(note con la testimonianza di chi ha salvato Don Gnocchi)
- Con gli alpini della Tridentina, dietro il battaglione Edolo, marcia anche una sezione di sanità, i feriti ammassati sulle slitte trainate dai muli. Il tenente medico Rolando Prada è un giovane milanese, tira avanti a forza, come tutti.
Nota un militare con un bavero di pelliccia applicato al cappotto. È accasciato nella neve come tanti. Prada si avvicina. “Don Carlo, sei tu?”. Il cappellano della Tridentina è stremato. “Don Carlo, su, vieni con noi”. Il prete risponde che lo lascino stare, non pensino a lui. E volge lo sguardo attorno, a quelli che hanno ceduto o stanno per cedere alla tentazione dell’ultimo abbandono. Non ha la forza di opporsi quando lo issano sulla slitta stracarica. Gli basta quel breve riposo. A sera la sezione medica lo riconsegna al comando di divisione. E don Carlo Gnocchi esce dalla sacca. Torna in Italia con lo zaino gonfio di lettere, cartoline, biglietti, ricordi, testimonianze della tragedia. Per un po’ vaga alla ricerca di mogli, figli, mamme, fidanzate. Lo hanno decorato con la medaglia d’argento.
- Tobia Buratti (03.05.1912 – 30.05.1969) è stato l’attendente di Don Carlo Gnocchi durante la campagna di Russia. Ora riposa nel piccolo cimitero della frazione di Ghiaie di Bonate di sopra (BG). Scrive l’autore Ferruccio Pallavera in Don Carlo Gnocchi, Cassa Rurale e Artigiana di S. Colombano al Lambro, 1987, riportando E. Semenza, A. Colombo in Don Carlo Gnocchi un uomo del suo tempo, Logos International, Pavia 1987: <Anche Don Carlo marcia, fino allo sfinimento. Sostiene come può chi è più estenuato, benedice i moribondi, raccoglie gli ultimi aneliti, le preghiere e gli appelli dei suoi alpini. Alla fine, cede anche il suo esile corpo e cade: un mucchietto di carne, una macchia scura sulla neve. Ma alla sera, durante la sosta in un’isba, un alpino lancia un grido: “Dov’è Don Carlo?”; Tobia, il fedelissimo attendente, si butta nelle tenebre alla ricerca del suo Cappellano. Non può essere lontano, la marcia è troppo estenuante e faticosa per poter compiere tanta strada. Vede slitte cariche di feriti, alpini che si trascinano a stento, ansiosi di trovare un ricovero; alcuni fermi che non possono più alzarsi. A tutti chiede. Chi può si unisce alla ricerca e, finalmente, lo trova semi assiderato appena cosciente da raccomandargli la ricerca di altri compagni. Lo ha salvato il tenente medico Rolando Prada che, minimizzando sull’episodio, dirà: “L’ho trovato, l’ho raccolto, l’ho forzato ad inghiottire un pezzetto di formaggio grana che avevano grattato alla Sussistenza e, alla sera, lo abbiamo riconsegnato al suo reparto; là erano tutti alla sua disperata ricerca; l’avevano lasciato indietro e pensavano di averlo perduto per sempre”>. Tobia Buratti seguirà Don Gnocchi anche quando rientrerà in patria, al termine della guerra. Entrambi saranno poi arrestati dalle SS che, a Milano, avevano la loro sede e il loro tribunale di guerra presso l’Hotel Regina. Rinchiusi entrambi nel Carcere di S. Vittore a Milano, in esso Tobia sarà torturato e seviziato.
Ilario Péraro – (continua)