L’Alpino: “RACCONTO TRATTO DAL LIBRO: “RITORNO SUL DON” di Mario Rigoni Stern”… – 48

…a cura di Ilario Péraro

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RACCONTO TRATTO DAL LIBRO: “RITORNO SUL DON”
di Mario Rigoni Stern


– Come ti chiami? –
– Angelo, e voi? –
– Io Marco, lui Toni. –

La neve era alta e sprofondavano fino al ginocchio; proseguirono senza parlare; ogni tanto uno dei tre passava davanti per fendere la pista a turno. Uscirono dal bosco ed ebbero il vuoto, finché tutti insieme videro una piccola luce. Piccola, lontanissima, in fondo al mondo.
Vi arrivarono con meno tempo e fatica di quanto avessero vagamente supposto: era la prima isba di una fila nascosta in una lunga balca. Lì tutto era intatto: nessun incendio, nessuno sparo, vergine la neve e senza tracce. Nemmeno i cani abbaiarono. Un ovattato silenzio avvolgeva tutto.

La luce della candela baluginava da una piccola finestra incrostata di ghiaccio. Girarono attorno allo steccato e trovarono la porta. Bussarono, chiamarono, o almeno credettero di chiamare. Finché la porta si aprì. Là dentro era caldo: un dolce e profondo caldo con odore di cavoli, patate bollite, latte. Senza parlare si avvicinarono alla stufa per sgelarsi da dosso le coperte e i passamontagna. Finalmente, quello che dei tre aveva sulla giubba i gradi di caporale, rivolgendosi al vecchio che aveva aperto chiese: – Niema partisan?
Niema ruschi soldati? –
– Nièt. – rispose il vecchio. –
– Niente mangiare? Ièst… – e fece il gesto di portare cibo alla bocca. –
– Malo, poco, poco – disse il vecchio, rassicurante.
– Non sento più i piedi, non li sento proprio più. –
L’alpino sulla panca tentava di levarsi le scarpe e le calze, i due artiglieri attorno alla stufa stavano riprendendo vita; ma tutti e tre risentivano la fame e il dolore del sangue che riprendeva a circolare negli arti: era come se tanti aghi pungessero in profondità mani e piedi, e uno stecco rimestasse nello stonaco.
… Il vecchio … trasse una olla pesante che posò sul tavolo. Mise tre cucchiai di legno e disse: – Cùscai, italiani. – … Tutti e tre si sedettero in silenzio attorno alla tavola … Il caporale si alzò per ispezionare l’isba … spiegandosi con qualche parola russa e tedesca, inframmettendo molto dialetto materno e aiutandosi con gesti, fece capire che stanotte avrebbero dormito lì, che fuori c’era la tormenta ed era impossibile proseguire, che, infine, erano molto, molto stanchi e avevano sonno. … il vecchio: – Spat’c qua, – disse – dormite tranquilli, ma fate piano per non svegliare mateloti. –
Fu a questo punto che il caporale si accorse che il vecchio usava parole del suo dialetto…
Il russo fumava con pipetta e lo guardava in silenzio; d’un tratto gli disse sottovoce: – No vot cavarte le scarpe? Chi l’è tutto calmo… Càvete le scarpe. – … trasse una bottiglia e porgendola al caporale gli disse: – Bevi un poco. Non pensarghe. Dopo dormirai meglio. –
Bevette un longo sorso anche il vecchio: – Io son nato sotto l’Austria, ai tempi di Francesco Giuseppe, nell’ottantaquattro – … Raccontava che aveva fatto il soldato in Bosrnia, poi era stato congedato e aveva preso moglie; nel ’14 capitò la guerra e lo richiamarono nei Jaiserjäger. Nell’offensiva del ’16, in Volinia, quella del generale Brusilov, venne fatto prigioniero dai russi e portato negli Urali, per le Siberie. Dopo venne anche la rivoluzione, e i bianchi e i rossi, e lui, cercando di vivere, camminava per terre che non finivano mai. Chissà fin dove. Fin dentro i deserti dove c’erano i mongoli e in quei paesi dell’Asia centrale dove ci sono i cammelli. Ma lui voleva tornare a casa, era l’autunno; ero stanco, c’era tanta pace e terra da seminare, e quasi nessun uomo per lavorarla. Si fermò.
Ai paesani disse che era un soldato russo fatto prigioniero dagli austriaci, nel ’15 in Galizia, che aveva lavorato sulle montagne Dolomiti con gli altri prigionieri a costruire una ferrovia, dietro le linee, e che, finita la guerra, era ritornato a casa. Ma non aveva trovato nessuno e così era venuto in questo villaggio dove, aveva sentito c’era tanto da lavorare. Si fermò tutto l’inverno; forse era nel ’27. In primavera non ripartì più.
Il caporale ascoltava… – Ma in che paese sei nato sotto l’Austria? –
– Nel Trentino. Sono delle Giudicarie. –
– In che paese delle Giudicarie? –
Il russo lo pronunciò alla vecchia maniera e il caporale al sentire il nome del suo paese fu come se una scossa elettrica lo avesse percorso.
– Diséme, diséme … – ripeté il caporale – anca mi son nat là. –
Il vecchio… i ricordi che credeva sepolti per sempre si rifacevano vivi, immediati, precisi. …Come sarà ora laggiù? … Ricordava precisi i profili dei monti, contro il cielo, con i prati, i boschi, i pascoli e le rocce … Anche gli orsi … i compagni di gioco e di scuola … il maestro con la bacchetta … le vocali, le consonanti, la dottrina cristiana, l’aritmetica: – L’è ancora vivo il maestro Andrea? – chiese ad un tratto.
– È vivo – rispose il caporale. – È stato anche il mio maestro. Era severo ma bravo. –
– E don Bortolo? –
– No, don Bortolo è morto quando è scoppiata la guerra. Al suo funerale è venuta tutta la valle. – … Lui voleva sapere di più, chiedere della donna che aveva lasciato laggiù, dei parenti. Ma che diritto aveva? … – Ma voi chi siete? – gli chiese. Non gli rispose …
– Conosci il Matteo dei Baross? –
– Il Matteo? Quello che fa il carraio su alla Riva? Ma quello è il mio santolo! –
– E la Betta del Maso, la conosci? –
– La betta del Maso, el santolo Mattio. La Betta l’è sua mama, la mama là del Toni, quello che dorme tacà al forno. – Il vecchio prese la bottiglia e bevette un sorso; sospirò profondo, la passò al caporale e anche lui bevette come trasognato. – Senti, toi, ascoltami: chi sei? –
– Marco de Longhi. La me mama l’è la Margherita del Maso. Me pare l’era el Piero che è morto nella guerra del ’14, quando sono nato. – Il vecchio … Tremava nelle mani e gli tremava la barba rossiccia. – Tua madre – disse rauco – tua madre ti ha partorito quando ero al fronte, me lo scrisse nel marzo del ’16. Ricordo. Sei nato il 2 marzo del ’16. Ero in Volinia. Mi, Marco, son to pare. – … venne a sedersi sulla panca vicino a Marco e senza guardarlo gli chiese: – E tua madre? E Ida? E Virgilio? –
– Stanno bene. Virgilio è guardia forestale. Ida è sposata. Anche Virgilio. E mia madre, povera vecchia, è lì che mi aspetta. –
– Vedi, vedi. Non potevo fare in altra maniera. Ero stanco di camminare. Erano anni che camminavo e tutti i miei compagni erano morti. Ne avevo viste troppe. Qui c’era finalmente la pace, e c’era da lavorare. Dopo mi sono accompagnato con quella donna e ho avuto tre figli. -Marco … Lentamente aveva alzato il braccio e posandolo sulla spalla del vecchio aveva stretto forte. Al vecchio venne un brivido e si scosse.
– Uno è nell’Armata Rossa e aspettiamo che un giorno o l’altro passi da qui. Quella donna che è sopra la stufa è sua moglie che è venuta qui a rifugiarsi con i miei nipotini. La figlia ci è stata portata via dai tedeschi un giorno che era andata al mercato e non sappiamo più niente; il ragazzo è con i partigiani e sono tre mesi che non lo vedo … Che destino! Maledette guerre! La guerra, la maledetta guerra della razza caina. – riprese
– Ma domattina attaccherò la slitta e ti porterò fuori. Ti porterò fuori in un paio di giorni. A Charkov; e dopo tornerò qui. Non posso abbandonarli. E tu non dire niente a loro. – Marco dei Longhi faceva sì con la testa, e con la mano stringeva la spalla del vecchio.
– Almeno tu, Marco, arriverai a casa da tua madre e nella nostra valle. Ma non dire niente neanche a loro. Non dire in paese che mi hai visto. Capisci? Non dirlo mai. È meglio per tutti. Il mio posto è qui ora.
Capisci? Resterebbero soli. Ma tu ci arriverai a casa. Ti farò io arrivare. Che destino! –

Ilario Péraro

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