L’Alpino: “Scemo di guerra… – 24/9

…a cura di Ilario Péraro

Alpini 2

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Scemo di guerra

Racconto liberamente ispirato alla figura di don Primo Discacciati, 
cappellano militare all’Ospedaletto di Storo dal 1915 al 1918.

ERANO PARTITI DA STORO ALL’ALBA

Giovedì 21 giugno 1917

(…continuazione)

 IL VOLTO DEL FRATE ERA TRISTE E SPRIZZAVA COMPASSIONE SINCERA

Venerdì 22 giugno 1917

Dopo una notte trascorsa per la gran parte sveglio, con gli occhi sbarrati nel buio del bugigattolo che gli era stato assegnato, protetto dai rumori esterni dalle spesse pareti di roccia e cemento grezzo, don Primo si alzò e svegliò Alcide, che dormiva in una stanzetta accanto, collegata alla sua da una porta.
«Per prima cosa procurami carta, inchiostro e penna, fatteli dare dalla fureria. Dopo di che va’ a cercare il prete del forte, dovrebbe essere un frate, e accompagnalo qui da me.»
Quando ebbe carta e penna a disposizione, il cappellano s’inginocchiò per terra, spostò il sottile materasso, appoggiò un foglio sul piano di legno del letto e scrisse.
“Mio caro Monsignor Ferrari, c’è voluta questa guerra tremenda perché i nostri destini s’incontrassero di nuovo per il bene dei deboli e dei fragili. Ho ancora negli occhi la sua benedizione del primo giugno del 1901 nel Duomo di Milano con cui mi ordinava sacerdote della sua Arcidiocesi: è un ricordo che mi dà energia anche in questa triste situazione. Lei sarà al corrente – perché mi dicono che lo dispose proprio lei in persona, d’accordo con l’Ordinario militare monsignor Bartolomasi, – che io oggi sono nel forte San Marco di Caprino Veronese, dove mi sono preso in carico la sorte del povero don Sergio Babbolin, prete novello senza cura d’anime nella parrocchia di Cadoneghe, nel padovano, e spedito al fronte a farsi massacrare sul Pasubio. Don Sergio, dopo una condanna a vent’anni per procurata lesione ad un dito della mano destra, millanta uno stato di pazzia del quale nessuno si convince, ma che l’ha portato, una seconda volta nel giro di pochi giorni, davanti alla corte marziale, che l’ha disgraziatamente condannato a morte. La situazione fisica di don Sergio è a dir poco drammatica, ma ho il sospetto che la pazzia di cui fa vanto continui in realtà a essere una simulazione. Inoltre Icaro Tomasi, il colonnello comandante del forte, non brilla certo per spirito di comprensione. Eccellenza, sono a chiederle: quale strada devo scegliere? Come devo comportarmi? Io ho avuto ancora a che fare con simulatori e disertori: li ho sempre condannati come esempi di viltà, ma di fronte al povero don Sergio, malato, balbettante, chiuso al mondo, le mie certezze stanno vacillando. Attendo, Monsignor Ferrari, una qualche sua indicazione a riguardo. Prego per lei, nella speranza che anche lei mi ricordi nelle sue preghiere.

                                                                                                                      Don Primo Discacciati”

Aveva appena riempito il foglio inserendolo in una busta gialla, quando la porta della cella si aprì con gran fracasso ed entrò il colonnello Tomasi.
«Cos’è questa storia che buttiamo l’acqua al vento per pulire un condannato a morte?» strillò mettendo a dura prova le sue corde vocali già compromesse. «L’acqua è un bene prezioso per il forte, signorino mio bello: guai a lei se osa ancora sprecarla per dar sollievo a chi, entro domani sera al più tardi, sarà sepolto nella fossa comune dei condannati!»
Un brivido corse giù per la schiena del cappellano quando sulla soglia apparvero Alcide e il prete del forte, vestito con un saio chiaro.
«E lei che ci fa qui, padre Augusto?» latrò il Tomasi con gli occhi fuori dalle orbite.
«Sono stato chiamato da don Primo, penso per una commissione» rispose il frate, torturandosi le mani nervoso.
«No, padre Augusto» lo interruppe don Primo, temendo che potesse sfuggirgli di bocca qualcosa di compromettente, «volevo solo chiederle quando possiamo celebrar messa.»
Il colonnello s’accorse che l’aria della stanza stava cominciando a puzzare un po’ troppo di chiesa: tirò fuori di tasca un sigaro nuovo, dal taschino prese l’accendino e fece per uscire: «Vi lascio alle vostre cose di santi e madonne ma mi raccomando, tenente cappellano: basta pulizie, basta buttar via acqua pulita, basta regalar pane nero ai condannati, siamo d’accordo?»
Rimasti soli, don Primo studiò velocemente padre Augusto, una figura minuta ma energica, con uno sguardo intelligente e aperto: una barbetta grigia gli incorniciava il mento e una chierica benfatta gli lasciava libera la parte alta della testa. «Lei vive qui al forte, padre?»
«Oh no, siamo in guerra e tutti dobbiamo dare una mano: come vede dal saio, io sono un frate benedettino e vivo nell’eremo camaldolese di San Giorgio, sopra Garda, ma di questi tempi aiuto anche il parroco di Caprino Veronese confessando il pomeriggio e celebrando la messa della sera. Tre volte la settimana, invece, al mattino presto salgo al forte col camioncino dei viveri a portar sollievo ai soldati malati e ai condannati. Come sta don Sergio?»
Il volto del frate era triste e sprizzava compassione sincera: don Primo fu sicuro di non sbagliarsi, perciò prese la busta e… «Padre Augusto, ho un piacere confidenziale da chiederle. Nel pomeriggio, quando rientra a Caprino, potrebbe spedire per posta questa lettera? È urgente, lo capirà lei stesso quando leggerà il destinatario, ma mi raccomando: qui al forte non lo deve venire a sapere nessuno!»
Il frate lesse l’indirizzo e impallidì leggermente: «Quando dice nessuno, si riferisce al tenente colonnello Icaro Tomasi, vero? No, perché la guerra è già triste e complicata di suo, ma non sai più cosa fare se ci si mettono anche gli alti gradi militari a render difficile la vita a noi pecorelle del Signore. Il nostro comandante viene da Palermo, il suo vero nome è lungo un chilometro a causa della nobiltà che gli cola addosso: Icaro Tomasi di Lampedusa e, poi, principe di qua, duca di là, barone dall’altra… Figlio di gente importante, insomma, gente che ha appoggi fino a Roma, dobbiamo fare attenzione… Mi dica invece di don Sergio…»
«Non lo so, siamo stati assieme meno di un’ora, ieri sera: il tempo di ripulirlo e rivestirlo… Secondo lei sta fingendo d’esser pazzo, vero?»
«Cosa vuole che dica: che finga o faccia sul serio, quella pover’anima prima di domani o dopodomani sarà tra le braccia del Signore Iddio, finalmente sarà pace all’anima sua!»

Ilario Péraro – (9 continua)

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