L’Alpino: “UN ANNO SULL’ALTIPIANO” – 25
…a cura di Ilario Péraro
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Tratto da
UN ANNO SULL’ALTIPIANO
di Emilio Lussu
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Ora erano là, gli austriaci: vicini, quasi a contatto, tranquilli, come i passanti su un marciapiede di città. Ne provai una sensazione strana. Stringevo forte il braccio del caporale che avevo alla mia destra, per comunicargli, senza voler parlare, la mia meraviglia. Anch’egli era attento e sorpreso, e io ne sentivo il tremito che gli dava il respiro lungamente trattenuto. Una vita sconosciuta si mostrava improvvisamente ai nostri occhi. Quelle trincee, che pure noi avevamo attaccato tante volte inutilmente, così viva ne era stata la resistenza, avevano poi finito con l’apparirci inanimate, come cose lugubri, inabitate da viventi, rifugio di fantasmi misteriosi e terribili. Ora si mostravano a noi, nella loro vera vita. Il nemico, il nemico, gli austriaci, gli austriaci! … Ecco il nemico ed ecco gli austriaci. Uomini e soldati come noi, fatti come noi, in uniforme come noi, che ora si muovevano, parlavano e prendevano il caffè, proprio come stavano facendo, dietro di noi, in quell’ora stessa, i nostri stessi compagni. Strana cosa. Un’idea simile non mi era mai venuta alla mente. Ora prendevano il caffè. Curioso! E perché non avrebbero dovuto prendere il caffè? Perché mai mi appariva straordinario che prendessero il caffè? E, verso le 10 o le 11, avrebbero anche consumato il rancio, esattamente come noi. Forse che il nemico può vivere senza bere e senza mangiare? Certamente no. E allora, quale la ragione del mio stupore? Ci erano tanto vicini e noi li potevamo contare, uno per uno. Nella trincea, fra due traversoni, v’era un piccolo spazio tondo, dove qualcuno, di tanto in tanto, si fermava. Si capiva che parlavano, ma la voce non arrivava fino a noi. Quello spazio doveva trovarsi di fronte a un ricovero più grande degli altri, perché v’era attorno maggior movimento. Il movimento cessò all’arrivo d’un ufficiale. Dal modo con cui era vestito, si capiva ch’era un ufficiale. Aveva scarpe e gambali di cuoio giallo e l’uniforme appariva nuovissima. Probabilmente, era un ufficiale arrivato in quei giorni, forse uscito appena da una scuola militare. Era giovanissimo e il biondo dei capelli lo faceva apparire ancora più giovane. Sembrava non dovesse avere neppure diciott’anni. Al suo arrivo, i soldati si scartarono e, nello spazio tondo, non rimase che lui. La distribuzione del caffè doveva incominciare in quel momento. Io non vedevo che l’ufficiale. Io facevo la guerra fin dall’inizio. Far la guerra, per anni, significa acquistare abitudini e mentalità di guerra. Questa caccia grossa fra uomini non era molto dissimile dall’altra caccia grossa. Io non vedevo un uomo. Vedevo solamente il nemico. Dopo tante attese, tante pattuglie, tanto sonno perduto, egli passava al varco. La caccia era ben riuscita. Macchinalmente, senza un pensiero, senza una volontà precisa, ma così, solo per istinto, afferrai il fucile del caporale. Egli me lo abbandonò ed io me ne impadronii. Se fossimo stati per terra, come altre notti, stesi dietro il cespuglio, è probabile che avrei tirato immediatamente, senza perdere un secondo di tempo. Ma ero in ginocchio, nel fosso scavato, ed il cespuglio mi stava di fronte come una difesa di tiro a segno. Ero come in un poligono e mi potevo prendere tutte le comodità per puntare. Poggiai bene i gomiti a terra, e cominciai a puntare. L’ufficiale austriaco accese una sigaretta. Ora egli fumava. Quella sigaretta creò un rapporto improvviso fra lui e me. Appena ne vidi il fumo, anch’io sentii il bisogno di fumare. Questo mio desiderio mi fece pensare che anch’io avevo delle sigarette. Fu un attimo. Il mio atto del puntare, ch’era automatico, divenne ragionato. Dovetti pensare che puntavo, e che puntavo contro qualcuno. L’indice che toccava il grilletto allentò la pressione. Pensavo. Ero obbligato a pensare. Certo, facevo coscientemente la guerra e la giustificavo moralmente e politicamente. La mia coscienza di uomo e di cittadino, non erano in conflitto con i miei doveri militari. La guerra era, per me, una dura necessità, terribile certo, ma alla quale ubbidivo, come ad una delle tante necessità, ingrate ma inevitabili, della vita. Pertanto facevo la guerra e avevo il comando di soldati. La facevo dunque, moralmente, due volte. Avevo già preso parte a tanti combattimenti. Che io tirassi contro un ufficiale nemico era quindi un fatto logico. Anzi, esigevo che i miei soldati fossero attenti nel loro servizio di vedetta e tirassero bene, se il nemico si scopriva. Perché non avrei, ora, tirato io su quell’ufficiale? Avevo il dovere di tirare. Sentivo che ne avevo il dovere. Se non avessi sentito che quello era un dovere, sarebbe stato mostruoso che io continuassi a fare la guerra e a farla fare agli altri. No, non v’era dubbio, io avevo il dovere di tirare. E intanto, non tiravo. Il mio pensiero si sviluppava con calma. Non ero affatto nervoso. La sera precedente, prima di uscire dalla trincea, avevo dormito quattro o cinque ore: mi sentivo benissimo: dietro il cespuglio, nel fosso, non ero minacciato da pericolo alcuno. Non avrei potuto essere più calmo, in una camera di casa mia, nella mia città. Forse, era quella calma completa che allontanava il mio spirito dalla guerra. Avevo di fronte un ufficiale, giovane, inconscio del pericolo che gli sovrastava. Non lo potevo sbagliare. Avrei potuto sparare mille colpi a quella distanza, senza sbagliarne uno. Bastava che premessi il grilletto: egli sarebbe stramazzato al suolo. Questa certezza che la sua vita dipendesse dalla mia volontà, mi rese esitante. Avevo di fronte un uomo. Un uomo! Un uomo! Ne distinguevo gli occhi e i tratti del viso. La luce dell’alba si faceva più chiara ed il sole si annunziava dietro la cima dei monti. Tirare così, a pochi passi, su un uomo … come su un cinghiale! Cominciai a pensare che, forse, non avrei tirato. Pensavo. Condurre all’assalto cento uomini, o mille, contro cento altri o altri mille è una cosa. Prendere un uomo, staccarlo dal resto degli uomini e poi dire: “Ecco, sta’ fermo, io ti sparo, io t’uccido” è un’altra cosa. È assolutamente un’altra cosa. Fare la guerra è una cosa, uccidere un uomo è un’altra cosa. Uccidere un uomo, così, è assassinare un uomo. Non so fino a che punto il mio pensiero procedesse logico. Certo è che avevo abbassato il fucile e non sparavo. In me s’erano formate due coscienze, due individualità, una ostile all’altra. Dicevo a me stesso: “Eh! non sarai tu che ucciderai un uomo, così! “Io stesso che ho vissuto quegli istanti, non sarei ora in grado di rifare l’esame di quel processo psicologico. V’è un salto che io, oggi, non vedo più chiaramente. E mi chiedo ancora come, arrivato a quella conclusione, io pensassi di far eseguire da un altro quello che io stesso non mi sentivo la coscienza di compiere. Avevo il fucile poggiato, per terra, infilato nel cespuglio. Il caporale si stringeva al mio fianco. Gli porsi il calcio del fucile e gli dissi, a fior di labbra: -Sai … così … un uomo solo … io non sparo. Tu, vuoi? Il caporale prese il calcio del fucile e mi rispose: -Neppure io.- Rientrammo, carponi, in trincea. Il caffè era già distribuito e lo prendemmo anche noi. La sera, dopo l’imbrunire, il battaglione di rincalzo ci dette il cambio.
Ilario Péraro