8. L’apice della civiltà cimbra
…a cura di Aldo Ridolfi
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I Cimbri della Lessinia
8. L’apice della civiltà cimbra
Con il tramontare del Trecento la fase pionieristica volge al termine, ma, proprio all’inizio del Quattrocento, avviene un fatto decisivo e del tutto nuovo.
Era il 21 giugno del 1405 quando la Serenissima, nella figura del Provveditore Generale di San Marco Gabriele Emo, fece il suo ingresso in Verona. Appena il tempo di insediarsi e la Dominante pensò bene di vendere i beni della Fattoria Scaligera. Ebbene, l’intero possedimento di Roveré, nel 1409, venne acquistato dai coloni cimbri! Come nota lo storico veronese Carlo Cipolla, i Cimbri per la prima volta diventavano proprietari delle terre che lavoravano. Dopo appena 122 anni, quei pastori nomadi si sedentarizzarono e acquisirono sufficiente forza economica da prendere al volo l’occasione per diventare proprietari. La descrizione dei fondi parla di case in muratura con coperto di paglia, di orti, di prati, di boschi e di alberi fruttiferi. Un bel progresso rispetto a quanto ci lasciava pensare la formula, più volte ribadita nel documento dei vescovi Bartolomeo e Pietro, che faceva riferimento a selve e terre incolte, deserte e disabitate.
Ma non di soli pastori si deve parlare, ché i cimbri divennero presto (o lo erano già) esperti boscaioli, tanto che il termine con cui venivano definiti, “cimbri” appunto, già nel corso del Trecento, prese piede e lentamente sostituì altri appellativi, quali “teutonici” o “todeschi”, con cui venivano designati. Infatti, il termine zimberer vale «lavoratore del legno, carpentiere, boscaiolo» (G. Rapelli): da zimberer a cimbri il passo è breve. Con il termine “cimbri”, dunque, si indicavano semplicemente dei boscaioli. A questa loro attività e alle richieste di legname e di carbone si deve la definizione della Lessinia come “Montagna alta del carbon”, espressione frequentissima nei documenti storici. Attività umane, dunque, che si diversificavano, che si specializzavano. In questo senso torna necessario citare anche la produzione di ghiaccio, attività peraltro precocissima se Carlo Cipolla cita un documento nel quale si dice che in estivo tempore homines della montagna ducere debent glacies ad curiam Mastini et Alberti de la Scala.
Nel corso del Quattrocento si assistette poi ad una trasformazione fondamentale nel tessuto economico della Lessinia. Nella città di Verona le attività legate alla lavorazione della lana andarono progressivamente in crisi, mentre crebbero quelle casearie e con esse il ruolo dell’Arte dei Formaggeri. Anche la Lessinia, se voleva restare nel mercato (giusto per usare un’espressione e un concetto dei nostri giorni, ma, come si vede, valido anche allora), doveva evolvere e dunque l’allevamento da ovino diventò bovino, con tutte le conseguenze che questo mutamento comportava sul paesaggio e sull’architettura di tutto il territorio. In una simile organizzazione, i montanari lessinici avevano il compito dell’allevamento, mentre «il totale controllo della commercializzazione era accentrato nelle mani dei rappresentanti dell’Arte» dei Formaggeri (Marco Pasa). In altre parole: in montagna si lavorava e si produceva, in città si
commerciava.
Queste brevi note di carattere economico e sociale valgano solamente per dare l’idea delle complesse interconnessioni presenti anche nei secoli a cavallo tra medioevo ed età moderna. Si tratta comunque di sinergie che se da una lato implicavano conflittualità di vario tipo, dall’altro consentirono, nel corso del Quattrocento e del Cinquecento, di costruire ed ampliare chiese e contrade e di sviluppare le vie di comunicazione, insomma – nei limiti di quell’epoca – di migliorare il tenore di vita.
Una contrada della Lessinia:
Vanti, sulla strada che da Roveré porta a San Francesco.
Aldo Ridolfi (Continua)