Lessing Doris – “L’erba canta”
…a cura di Elisa Zoppei
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Cari amici lettori, è sempre bello per me incontrarvi in questo Angolo della Lettura dove da più anni curo di volta in volta le recensioni di romanzi di narrativa che mi hanno particolarmente interessata e piacevolmente intrattenuta. Ve li ho proposti secondo il mio modo di leggerli, sguarnito da qualsiasi velleità di critica letteraria, ma come compagni di un viaggio interiore, capaci di regalarmi pensieri profondi, sorrisi a fior di pelle, emozionanti suspense in tante storie belle o avventure talvolta drammatiche, sempre in grado di farmi respirare atmosfere nuove, palpitanti di vita altra che arricchiscono la mia.
Presento qui, oggi, un romanzo molto speciale con un titolo bellissimo che fa sognare “L’erba canta” di Doris Lessing, grandissima scrittrice londinese che ha attraversato quasi tutto il novecento e, cavalcando agevolmente il tempo, è approdata nel nostro millennio, insignita nel 2007 del premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione «Cantatrice epica dell’esperienza femminile, che con scetticismo, passione e potere visionario ha messo sotto esame una civiltà divisa».
Doris May Lessing, (Kermanshah, 22 ottobre 1919 – Londra, 17 novembre 2013)
Mi appassionano da sempre le biografie delle persone che hanno contribuito con le loro opere d’arte, scrittura, pittura, musica, poesia, ma anche di scienza, di filosofia e quant’altro, ad allargare gli orizzonti del nostro conoscere, amare, comprendere meglio il nostro universo umano e culturale. Mi piace addentrarmi nelle loro vite e capire quali vicende hanno influenzato le loro scelte, quali passi hanno fatto per arrivare a imporsi all’attenzione del mondo. Nel caso di Doris Lessing, devo dire che il materiale informativo è sterminato, a partire dai suoi due romanzi autobiografici Sotto la pelle e Camminando nell’ombra, alla prefazione al romanzo L’erba canta tradotto in italiano da Maria Antonietta Saracino, e alla consultazione di pagine presenti su Google. Quindi concedetemi cortesemente che mi allarghi un po’. Grazie.
Una lunga vita ricca e variegata, quella di Doris May Tayler, conosciuta meglio come Doris Lessing, dal cognome del secondo marito.
I suoi genitori erano inglesi: il padre, Michael Tayler, appartenente a una famiglia di funzionari bancari, all’età di 28 anni durante la prima guerra mondiale venne ferito gravemente e ricoverato al Royal Hospital londinese, dove gli fu amputata una gamba. Nel reparto ospedaliero che lo ospitava lavorava come capo sala Maude Mc Veagh, una donna sui 35 anni, bella e di buona famiglia, in gamba in tutto, brillante negli studi, appassionata lettrice, tenace e volitiva che ambiva alla carriera. Lo curò, se ne innamorò e, abbandonando lavoro e carriera, lo sposò per formarsi con lui una famiglia e lo seguì condividendo il suo sogno di far fortuna nelle colonie britanniche. La loro prima figlia Doris May nacque a Kermanshah, una antica cittadina mercantile persiana (oggi iraniana e ridotta in polvere dalla guerra Iran Iraq).
Dalla Persia per mancanza degli sbocchi economici desiderati, nel 1925 la famiglia si trasferì nella Rhodesia del Sud, oggi Zimbabwe. Doris scrisse più tardi che della sua prima infanzia ricordava, insieme agli odori dei luoghi, delle persone e degli animali, e all’emozione di quella volta che la misero in groppa a un cavallo, il suo attaccamento alla gatta di casa e il suo inconsolabile pianto nel doversene separare. Amò i gatti con i quali ebbe sempre un rapporto di speciale comunicazione empatica. Basterà leggere i racconti dedicati ai suoi Gatti molto speciali. Nella fattoria africana la famiglia, dove era arrivato anche un altro bambino, dovette affrontare la difficile vita dei coltivatori di mais in terreni arsi dal sole e poco fecondi. Vivevano in capanne di mattoni essiccati col tetto di paglia. Se questa vita scavò una fossa di delusione nel cuore della madre che vedeva sfiorire il suo desiderio di vivere il sogno vittoriano delle “terre selvagge”, per la futura scrittrice fu una vera e propria fonte di malessere quotidiano. Lei che amava gli spazi aperti, il dolce degradare del verde collinare, la massa ombrosa delle boscaglie, fu messa nel collegio delle suore domenicane, dove soffrì una solitudine selvaggia. L’unico sfogo della sua anima assetata di libertà era poter leggere di nascosto tutto quello che poteva. Nel frattempo il padre fra un sogno andato a male e l’altro, si era gravemente ammalato di diabete e la madre che lo curava, la teneva informata tramite lunghe lettere cariche di rimproveri e di moniti. Fra ribellioni e tentativi di fuga sopportò quella vita fino ai 14 anni, quando decise di abbandonare la scuola e di proseguire i suoi studi da autodidatta, tanto per manifestare il suo rifiuto a qualsiasi rigida disciplina quanto per contrastare l’autorità materna. Di sua madre non parlò mai con tenerezza, ma riempì pagine e pagine per analizzare il loro logorante conflitto che forse le impedì di capire che la forza del carattere materno era necessaria per contrastare le debolezze del padre segnato dalla guerra e diventato un sognatore disilluso. In realtà la ragazzina incalzata dalla stessa passione materna aveva scoperto il piacere di leggere diventando una divoratrice di libri che leggeva e rileggeva fino a fissarsi dentro una copiosa messe di opere della grande letteratura. E naturalmente nacque in lei la voglia di scrivere, di raccontare storie che la accompagnò per tutta l vita. Le furono pubblicati i suoi primi racconti ancora giovanissima e a 15 anni si svincolò dalla famiglia trovandosi un lavoro e sposandosi poi a 19. Era il 1938 ma dopo pochi anni nel 1943, nonostante avesse due figli ancora piccoli, divorziò, lasciando i bambini alla custodia dei parenti del marito. Le fu persino proibito di vederli.
Indomita e insofferente cominciò a frequentare il Left Book Club, circolo di lettura di comunisti, che, a suo dire, leggevano tutto e ritenevano tutto indegno d’essere letto. Lì incontrò Gottfried Lessing, un emigrante tedesco, votato anima e corpo al comunismo, lo sposò, e pure da lui ebbe un figlio, Peter, nato con qualche grave handicap. Fu un matrimonio disastroso: lei era comunista come allora andava di moda fra gli intellettuali d’avanguardia, ma, come disse, capì cosa voleva dire “comunismo” vivendo con un vero comunista. Nel 1949 prese Peter che aveva due anni, mise in una valigia il suo primo manoscritto finito, The Grass is Singing (L’erba canta appunto) e dalla Rodesia del sud se ne tornò a Londra. Aveva 30 anni ed era libera, ma adottò il cognome del marito. Nella capitale inglese dovette affrontare una vita dura, ma ebbe la soddisfazione, in concomitanza con il secondo divorzio, di pubblicare nel 1950, quel romanzo, dove aveva trasferito l’essenza spirituale e fisica della sua vita africana. Da quel momento si consacrò pienamente alla scrittura, seguendo una pulsione genetica emersa negli anni della sua prima giovinezza e sempre alimentata da una lettura voracemente onnivora. Pubblicò romanzi, racconti, opere teatrali, nei quali sono centrali sia l’elemento autobiografico, sia l’attenzione alle tematiche sociali: i conflitti razziali e di classe, l’emancipazione femminile, l’emarginazione e la solitudine.
Nel 2001 ottenne il Premio Príncipe de Asturias per le sue opere in difesa della libertà e del Terzo Mondo e il Premio Grinzane Cavour. Ricevette inoltre il David Cohen British Literature Prize. Quando nel 2007 le fu consegnato il Premio Nobel aveva 88 anni e il suo volto incorniciato da una folta massa di capelli grigi a chignon conservava un’intatta bellezza altera caparbia. Le sue mani erano ancora forti e con la voce sicura poteva dire: “Tutto quello che ho fatto, l’ho fatto da me!”
Aveva idee chiare sui complessi problemi della politica esistenziale, liquidando fior di militanti comunisti come «assassini con la coscienza pulita»). E le femministe? «Vogliono vivere come un uomo, sono donne presuntuose, farisaiche e, spaventano gli uomini».
La fede? «Non sono credente: Una fede vale l’altra. Dio è molto più antico delle religioni».
Si spense nel sonno a Londra il 17 novembre 2013 all’età di 94 anni, quattro settimane dopo la morte del suo sfortunato Peter, deceduto per infarto all’età di 66 anni. Per questo figlio handicappato aveva molto sofferto, vivendo al suo fianco, ma in due appartamenti adiacenti e comunicanti, sopportando quella condizione di schiavitù in cui si trovano i famigliari delle persone malate. Ormai era sfinita.
Opere edite da Feltrinelli e Fanucci:
Il taccuino d’oro (1962), Gatti molto speciali (1967), Discesa all’inferno (1971), L’estate prima del buio (1973), Memorie di una sopravvissuta (1974), Shikasta (1979), La brava terrorista (1985), Il quinto figlio (1988), Le nonne (2003), Una comunità perduta (2007).
Vi lascio col suo epigramma epicureo: «Hai avuto tempi meravigliosi, per un certo tempo: ed è il meglio che tu possa dire della vita».
L’erba canta, primo romanzo di Doris Lessing apparso al pubblico nel 1950 (La Tartaruga edizioni), è ambientato nella campagna della Rhodesia meridionale, colonia britannica sudafricana, una terra da coltivare, lontana molte miglia dai centri urbani.
L’Africa qui raccontata immerge il lettore nella vastità di un panorama campestre cosparso di fattorie e piantagioni di cereali e tabacco, condotte da coloni bianchi che per mandarle avanti dovevano avvalersi della mano d’opera dei negri. Questi ultimi sono rappresentati come una sottospecie umana, schiavizzati dai padroni e dalle loro mogli, ma anche carichi di un malcelato odio contro di essi. Doris fin da bambina mal sopporta questo stato di cose e si vergogna della mancanza di senso umanitario della sua gente. E ci porta in una landa sconfinata nella quale persino l’erba sembrava far sentire la propria voce, dove la vita era modulata dal ritmo delle stagioni, dall’alternarsi di caldo e di gelo, di luce accecante e di buio totale. Bisognava abituarsi alle due anime africane, sia quando le piogge ricoprivano la terra di un manto verde, brillante e luminoso, che quando il sole la disseccava tingendo ogni cosa di colori bronzei, quella terra entrava nel sangue della gente al punto da non riuscire più a sentirsi realmente a casa propria in nessun altro luogo.
Questa in sostanza l’atmosfera che aleggia in tutto il romanzo con squarci stupendi delle bellezze naturali, aspre e selvagge di una natura incontaminata. Il cuore del romanzo è interamente dedicato alla messa a fuoco dei protagonisti: la scostante Mary, suo marito Dick, ma soprattutto il Vald, il terreno africano nel quale è situata la loro fattoria, e il caldo asfissiante che sembra imprimersi nei pori della nostra pelle. All’interno della storia, seguiamo passo passo la difficile, complessa e mortificante relazione matrimoniale di Mary e Dik: il loro non comprendersi, il faticoso sopportarsi giorno dopo giorno, chiudendosi al contatto con gli altri per la loro incapacità di comunicare e condividere. Se Dick, è un sognatore sprovveduto che passa da un fallimento all’altro, ma rimane fedele a se stesso ai suoi principi, di dover rispettare l’alternarsi delle stagioni, di amare la terra, gli alberi, l’erba, Mary è delusa e frustrata nelle sue aspettative, e non sa nascondere il disprezzo per l’inettitudine del marito.
Il suo è un dramma sofferto dal di dentro che non può fermare la tragedia di una morte annunciata fin dall’incipit del romanzo.
E accanto a loro altri personaggi di contorno: il faccio tutto io di Charlie Statter, colono bianco che sa sfruttare bene le occasioni per arricchirsi e facendo l’amicone protettivo cura i suoi interessi a discapito dello iellato Dick; l’allampanato Tony Marston, giovanotto alla deriva che forse qualcosa di Mary ha capito, ma per una sorta di timore e reticenza calcolata non ha mai parlato. È tutta gente comune, quasi ritratti di famiglia, creature che vivono la loro vita come possono, sempre agognando uno sprazzo di felicità, mentre devono adeguarsi agli eventi, il più delle volte arrendendosi a una realtà che non sono riusciti a cambiare.
E c’è Moses il boy nero, un giovane uomo, dallo sguardo fiero che ha frequentato le missioni ed è meno grezzo dei suoi simili. Bravo lavoratore dal fascino seduttivo accudisce la padrona assecondando le sue debolezze. Lei un giorno per un raptus d’ira lo colpisce con lo scudiscio al viso, e ora lo teme. Confusa e insicura ne è sordamente attratta. È come se nella sua latente follia si avviasse verso il proprio destino consapevole che non vi si può sottrarre. Non sapremo mai perché Moses assassino reo confesso, ha alzato la mano armata su di lei, se per vendetta o per liberarla dai suoi demoni. Povera Mary, forse se ne stava innamorando, e certamente avrà comunque preferito la morte dalla sua mano, piuttosto che morire di vergogna tra le sua forti braccia di negro. La Lessing ne fa un ritratto di donna piena di complessi, refrattaria a tutte le possibilità di vivere in pienezza; segnata dalla forza del destino a perdere le opportunità di provare a essere felice, cambiando rotta ai suoi modelli di vita, cercando di capire i punti di vista di chi le stava vicino, staccandosi da se stessa e guardandosi da fuori con gli occhi degli altri. Insomma Mary è quella che è e basta, dissociata dal mondo pieno di persone diverse da lei. Confesso che ho sperato per tutta la lettura del romanzo che le accadesse qualcosa che la facesse sentire in pace con se stessa, invece ad ogni nuova iniziativa, dopo un primo breve momento cadeva nella fossa di angoscianti nevrosi una più devastante dell’altra che l’hanno prosciugata fino all’ultima energia.
È un libro che si fa leggere dalla prima all’ultima riga col fiato sospeso, ansiosi di sapere come va a finire questa storia, sperando in cuor nostro che alla fine l’amore trionfi. Che Moses, si sia dichiarato colpevole di omicidio e si sia costituito alla polizia distrettuale (lo sappiamo fin dall’inizio) per un atto di vero eroismo amoroso, per salvare Mary e proteggerla da una vergogna più grande. Sarà così?
Buona lettura, Elisa