Puntata 04 –
…a cura di Laura Schram Pighi
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Puntata 4
Anche per una passeggiata senza pretese un minimo di preparazione ci vuole: dobbiamo sapere per lo meno perché usciamo di casa e magari anche dove vogliamo arrivare e se possiamo fidarci di chi ci vuole accompagnare. Tanto più se pensiamo di entrare in un bosco, che se poi è “narrativo”…
Il bel titolo di Umberto Eco (Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 1995) mi dà il pretesto per definire alcuni termini che forse non a tutti sono famigliari.
Per esempio: con un testo narrativo, genericamente s’intende un libro scritto in prosa per raccontare qualcosa. Perché si può raccontare anche in versi, secondo un ritmo, più facile da ricordare a memoria… quando chi raccontava lo faceva con la sua voce e chi ascoltava non aveva un tablet sulle ginocchia. Da quando è stato sfrattato dal Paradiso Terrestre, l’uomo (la voce della donna c’è ma non si sentirà per molti secoli) non ha fatto che raccontare come sono andate le cose, perché, chi ha fatto che cosa, quando, dove…. La Bibbia e i grandi poemi omerici su su fino al viaggio di Dante e a quello di Orlando nella luna, o dei crociati a Gerusalemme sono dei grandi meravigliosi racconti in versi. Versi vuol dire poesia? Non sempre e non tutti i versi sono poesia, ma non complichiamoci la vita, teniamoci ai racconti in prosa, quelli sono gli alberi del nostro bosco. Lunghi o brevi per il momento non ci interessa. E lasciamo anche stare i racconti per figure o forme, o colori, le porte delle cattedrali per esempio, perché quello è un altro bosco anche se ciò che si racconta è lo stesso.
Gli alberi del nostro bosco sono comunque fatti di parole: “di che lingua please?” Dirà il nativo digitale, che crede che ci sia una sola lingua, quella che serve a fare soldi. Ma la domanda è giusta, perché in Italia, questa è l’area culturale dove ci muoviamo, nel bosco della letteratura, anche solo nella piccolissima aiola del racconto in prosa, di lingue se ne sono sempre usate almeno due.
Quella vecchia e illustre, il latino (che non sta in piedi senza il greco, per cominciare, ma anche qui passiamo oltre) ma è pur stata per duemila anni quella del potere politico, economico, culturale e religioso, e in parallelo, una delle tante nuove lingue, dei veri ibridi, che spuntavano come i germogli a primavera, da quel modello meraviglioso che stava trasformandosi. Ad un certo punto non serviva più per fare i calcoli (come si fa senza lo zero?), o dare un nome a tutti gli arnesi che servivano a fabbricare le galere di legno per portare merci e uomini per mare, lontano. Perché il mondo di allora stava cambiando passando da un presente avvertito come stabile e sicuro dopo duemila anni di latinità, ad un futuro spaventosamente ignoto, tutto da inventare.
“Per fare un ibrido bisogna essere per lo meno in due” dirà quello che crede di appartenere ad una sola razza, la sua, naturalmente, e in un certo senso ha ragione: infatti siamo tutti meticci, da sempre, e le parole che ci servono a comunicare lo sono pure loro, dopo la fine della Torre di Babele. Pazienza ci siamo arrangiati fin’ora, anche mica male: quando Cicerone o Virgilio scrivevano nel loro latino, i liberti greci o gli schiavi siriani o i militari germanici che venivano da ogni dove, scrivevano e parlavano con le parole dei loro dialetti e delle loro lingue mescolate alla lingua dei padroni, basta leggere le parolacce scritte sui muri di Pompei.
Dunque due classi sociali (almeno) e due livelli di espressione verbale, e quindi di letterarietà. Quando Dante, costretto ad uscire dal suo habitat linguistico toscano di variante fiorentina, prende coscienza per primo del plurilinguismo del suo tempo, attorno al 1300, perché arriva a Verona, si trova all’estero tra gente che si dà le arie di scrivere ancora in latino, ma parla e scrive anche in franco veneto alla corte più internazionale del tempo, mentre sui monti gli allevatori di cavalli sono vecchi arusnati o retici, e c’erano da prima che Verona diventasse la seconda Roma, e chi vende carbonella in Piazza Erbe, fabbricata a Giazza, parla un tedesco bavarese…
“Qui ci si deve dare una regolata…” deve aver pensato l’esule che aveva appena perso ogni punto di riferimento oltre alla lingua anche la famiglia, casa, figli, lavoro, tutto, ma non la fede in Dio che vedeva riflesso nella natura come gli aveva insegnato San Francesco. Negli uomini, no, alla larga.
Laura Schram Pighi