RICORRENZA… VERONA: “Indovinello Veronese: tra cultura e scoperta (1924)”
…a cura di Maria Rosanna Mucciolo
VERONA: “Indovinello Veronese: tra cultura e scoperta (1924)”
Storicamente la lunga dominazione romana aveva unificato l’Europa non solo sul piano politico e amministrativo, ma anche sul piano linguistico. Il latino era la lingua usata sia per gli scambi commerciali che culturali. Già Cicerone utilizzava uno stile “vulgaris sermo” (latino volgare), che era compreso da tutte le classi sociali. Nel secolo V si assiste ad una tendenza verso la semplificazione linguistica, che coincide con la presenza dei barbari nei territori dell’Impero. Si determinò una “frattura tra lingua usata per la scrittura e la lingua parlata”: la prima mantenne regole artificiali ispirate alla classicità, mentre la seconda subì una continua evoluzione che si concretizzò con i regni romano-barbarici e l’integrazione tra i conquistatori e gli abitanti delle regioni occupate, portando alla “nascita di nuove lingue” dette “volgari”. Questa fase di “diglossia” (condizione nella quale la stessa comunità utilizza due lingue diverse), le lingue volgari venivano utilizzate nel quotidiano, mentre per scrivere si utilizzava il latino, la lingua della cultura, della liturgia cattolica, delle leggi e delle comunicazioni diplomatiche. Dalla fase di passaggio dal latino al volgare abbiamo pochissime testimonianze scritte, tra le più note si ricorda il graffito nella cripta di Commodilla a Roma “Non dicere illa secrita a bboce”, il termine bboce è dialetto romano; un altro esempio risale all’842 con i “Giuramenti di Strasburgo”, si tratta di un patto tra i due figli di Ludovico il Pio: Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Importante è anche il Placito Capuano, che recita:
“sao ko kelle terre, per kelle fine que ki contene
trenta anni le possette parte sancti Benedicti”.
Traduzione:
“so che quelle terre, con quei confini che qui (nella carta) si contengono
le possedette per trent’anni la parte di San benedetto (il monastero benedettino di Montecassino)”
Con il termine “placito” nel medioevo si intendeva il parere di un giudice su una disputa.
Altrettanto importante è l’Indovinello Veronese, che risale alla fine dell’VIII e l’inizio del IX secolo, presumibilmente trascritto da un ignoto copista (monaco), su un foglio bianco posto tra la copertina e la prima pagina, senza dubbio di argomento profano. È una testimonianza importante dell’atto dello scrivere, si tratta di un indovinello che presenta diverse interpretazioni: il sintagma “se pareba” deriva da “sibi (dativo di vantaggio) e quindi traducibile in davanti a sé e “pareba” deriva dal latino “parare” e significa “spingere”, dell’Indovinello abbiamo alcune citazioni anche nel quarto romanzo di Umberto Eco ambientato tra il XII e il XIII secolo. Da questo si può intuire come l’Indovinello sia di particolare importanza letteraria. A 100 anni dal suo ritrovamento (1924), ancora viene menzionato per il suo valore letterario, per la diffusione della lingua parlata. Ritrovato nel 1924 ad opera dello studioso Luigi Schiapparelli in un manoscritto della Biblioteca Capitolare, viene descritta la diffusione della lingua italiana, il passaggio dal latino al volgare. Luigi Schiapparelli, si accostò alla paleografia con approfondimenti sulla tachigrafia medioevale, ovvero l’arte di scrivere in modo rapido, mediante le abbreviazioni. L’Indovinello è un piccolo testo scritto in corsivo minuscolo vergato (segnato da strisce) sulla parte anteriore della pergamena, oggi viene indicata con la pagina 3 del codice LXXXIX custodito nella Biblioteca Capitolare e presumibilmente, come detto prima, scritto da un monaco amanuense della stessa Capitolare. Questo viene attestato dalla presenza del dialetto veronese (volgare): versorio (aratro) e i verbi all’imperfetto indicativo in “eba” invece di “aba” o “ava”. Il testo comprende anche termini in latino: “semen”.
Molto belli sono anche i confronti: aratura con scrittura, contadino con scrittore, prato bianco con carta, seme nero con inchiostro.
Interpretazione:
“se pareba boves
alba pratalia araba
albo versorio teneba
negro semen seminaba
gratios tibi agimes omnpotens sempiternes deus”.
Traduzione
“spingeva avanti i buoi (le dita)
solcava arando un campo bianco (la carta)
e teneva un bianco aratro (la penna d’oca)
e seminava nero seme (l’inchiostro)
ti rendiamo grazie, o Dio onnipotente e sempiterno”.
Maria Rosanna Mucciolo
Fonti:
1- Buscagli- G. Tellini
2- Il palazzo di Atlante, le meraviglie della letteratura, dalle origini alla controriforma, Ed. D’Anna